Volevano ucciderlo con l’aborto, ma è nato vivo. È l’incredibile storia di Tommaso, morto all’ospedale di Careggi dopo essere sopravvissuto alla legge 194. Un caso esemplare della guerra che si combatte ogni giorno nei nostri ospedali contro i bambini non nati.
Hanno tentato di ucciderlo con un aborto “terapeutico”, ma non ci sono riusciti. Lui è sopravvissuto alla legge 194 ed è nato vivo. Quando i sanitari – quegli stessi che dovevano eliminarlo – si sono accorti che respirava, sono stati costretti a rianimarlo e a curarlo come si fa con qualsiasi paziente. Dopo alcuni giorni il piccolo, che pesava 500 grammi ed era lun-go 22 centimetri, non ce l’ha fatta, ed è morto. È successo in Italia nel marzo del 2007, all’ospedale Careggi di Firenze.
L'imbarazzo degli abortisti
Un pasticciaccio brutto che – occupando le “aperture” di Tv e giornali – ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’abor-to procurato nel nostro Paese. Una storia che può aiutarci a riflettere, e a riprendere con rinnovato slancio la battaglia per il diritto alla vita dei non nati. In fondo, quello che è accaduto all’ospedale di Careggi è soltanto la punta di un iceberg chiamato aborto di Stato. Una donna incinta si sottopone alle solite – spesso sproporzionate – analisi per stabilire le condizioni di salute del concepito. Quando il feto ha ormai oltre cinque mesi viene diagnosticata una grave malformazione. «È senza stomaco», sentenziano i medici. Si decide di eliminare “il problema” praticando un aborto volontario. Ma accade l’imprevisto: il bimbo nasce ed è vivo. Se fosse morto, vittima dei ferri del medico aborzionista, non ne avremmo saputo nulla. E quel piccolino non avrebbe avuto nemmeno un nome – Tommaso – che invece gli è stato attribuito quando ha mostrato di essere un “sopravvissuto”. E quando ha anche provato che i medici si erano sbagliati, e che la malformazione prevista, la sua unica “colpa” che spiegava quella condanna, non c’era.
Due tesi contrapposte
Le polemiche che sono infuriate dopo questa vicenda hanno visto confrontarsi due tesi di fondo. La prima – identificabile con il fronte abortista – che difende l’operato della donna e dei medici: nessun problema, è stata pienamente rispettata la legge 194. Esemplare il commento dell’assessore al diritto alla salute della Toscana – il diessino Enrico Rossi – secondo il quale «il primo pensiero va alla mamma, al travaglio e alle difficoltà della scelta, al dolore lancinante che deve aver provato, al conflitto interiore». Il primo pensiero non va alla vittima, al bambino. Perché il nascituro, semplicemente, non esiste.
Dall’altra parte, molte voci si sono levate per denunciare che quanto accaduto a Careggi è il frutto della mancata applicazione della legge 194. Ad esempio Eugenia Roccella – femminista storica “convertita” su posizioni meno intransigenti – ha scritto in un editoriale apparso sul quotidiano cattolico Avvenire: «Se il bambino di Careggi fosse mor-to subito, come era previsto, il caso non sarebbe approdato sulle prime pagine; e altrettanto sarebbe accaduto se la malformazione ipotizzata ci fosse stata davvero. Dunque è stato un incidente: perché è normale eliminare un feto di cinque mesi, ed è normale farlo soprattutto se ha un problema di salute, anche curabile. Ma la legge sull’interruzione di gravidanza non legittima l’aborto terapeutico, e vieta con chiarezza di abortire nel caso “sussista possibilità di vita autonoma” del nascituro, a meno che non vi sia “grave pericolo” per la vita della madre. Non si tratta di mettere in discussione la libera scelta della donna. (…) Non è solo la donna, a dover scegliere, siamo noi tutti: di fronte a ca-si come questo dobbiamo sapere che non si tratta solo di malasanità, ma che è urgente decidere se costruire una società dell’accoglienza e della cura, o una società del rifiuto e dell’indifferenza». Dunque, stando alle parole di Eugenia Roccella, se ne ricava che: a) eliminare un concepito “difettoso” è normale; b) l’importante è che la malformazione ci sia davvero; c) l’aborto è una questione di “libera scelta della donna” che non può essere messa in discussione; d) se però il feto ha possibilità di vita, occorre evitare l’aborto perché così prescrive la legge italiana; e) fatto salvo che a scegliere deve essere la donna, noi dobbiamo costruire una società dell’accoglienza.
La radice del problema
Occorre dire con molta chiarezza che un dibattito del genere appare orfano di un elemento fondamentale: la verità. La Roccella dice una cosa giusta quando ricorda il combinato disposto degli articoli 6 e 7 della legge 194, che vietano l’aborto nel caso in cui il feto sia riconosciuto viabile, cioè in grado di sopravvivere fuori dal corpo della donna. Fatto salvo – dice la legge – il caso estremo del pericolo per la vita (e non per la sola salute) della madre. Ora, poiché la legge non stabilisce in maniera rigida la settimana di gestazione in cui il feto è da considerarsi viabile, ciò significa che spetta ai medici definire – con l’evolversi delle cure neonatali – quando un feto è ormai così sviluppato da non poter più essere abortito. Un crinale assai scivoloso, al punto da indurre un personaggio come Umberto Veronesi – noto assertore del diritto di aborto e di eutanasia – a proporre uno spostamento del termine per abortire – secondo l’attuale pratica clinica – dalla 24esima alla 22esima settimana. Ma – i lettori de il Timone ne converranno – questo è un dibattito buono per giuristi, tecnici del diritto e ostetrici. Non ci basta. Nel senso che non coglie la radice del male: e cioè che Tommaso è stato ucciso perché una legge assegna esattamente questo potere a tutte le donne italiane.
Quello che non è normale
Il caso di Careggi non può essere soltanto l’occasione per imbastire una schermaglia sulla corretta applicabilità della legge 194, ma deve spingere a una più coraggiosa e completa riapertura del caso serio dell’aborto in Italia. Un Paese nel quale ogni giorno circa quattrocento bambini (feti), di età varia, alla media di uno ogni tre minuti, vengono eliminati nel silenzio più assoluto, in buona parte rispettando i dettami della legge 194. Che introduce in maniera tortuosa – e rigettandola in linea formale – una logica eugenetica. Quella logica che fa scrivere alla Roccella che «eliminare un concepito difettoso è normale». Purtroppo non è affatto normale. Come non è normale che la vita e la morte di un innocente – tanto più se ammalato – sia affidata alla volontà arbitraria di un’altra persona. Il nocciolo della questione è tutto qui: se sia giusto affermare che l’aborto «è una questione di scelta della donna». È questo il crinale, il punto di rottura che fa della nostra società una civiltà dell’omicidio legalizzato. Una volta accolta questa idea perversa, si potranno anche piantare nel testo di una simile legge tutti i paletti che si vogliono: rendere non troppo banale il ricorso all’aborto, escluderlo per i feti “perfetti” (e quali sono?), impedirlo in certe fasi gestazionali avanzate, implementare le strutture sociali di accoglienza e di aiuto alle donne in difficoltà (ottimo). Ma anche ammesso tutto questo (e oggi siamo purtroppo lontanissimi da uno soltanto di questi obiettivi parziali) rimane vero un fatto: e cioè che non avremo scalfito nemmeno di un graffio la logica abortista che avremo sposato. E cioè che abortire, almeno in certi casi, è un diritto della donna. Ecco perché la legge 194 non è una “legge da applicare meglio”, una specie di buona norma incompresa che potrebbe fare del gran bene se solo gli uomini lo volessero. No: la legge 194 rimane una legge ingiusta, per la quale l’unica soluzione umana sarebbe l’abrogazione. Un obiettivo raggiungibile? Oggi sembra impossibile. Ma battersi per qualche cosa di meno rappresenterebbe un grave tradimento nei confronti della verità, una grave complicità con l’uccisione quotidiana dei non nati, e una forma di acquiescente connivenza con il legislatore ingiusto.
Ricorda
«Pertanto, con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm2, 14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale».
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 1995, n. 57).
IL TIMONE – N.63 – ANNO IX – Maggio 2007 pag. 12-13