La fede è la virtù per eccellenza. Va custodita con cura, alimentata con la preghiera, vissuta nell’abbandono in Dio.
Perché riferendoci alla fede parliamo di “virtù”, in particolare di virtù teologale insieme alla speranza e alla carità? È dunque essa pure, come ogni altra virtù, una scelta di vita alla quale contribuisce in qualche modo anche la nostra volontà? La tradizione spirituale ci insegna che è così. Vediamo di capire il perché.
Capita qualche volta, sentendo parlare di fede, di avere l’impressione che essa venga fatta coincidere con l’esito di una ricerca razionale. La fede sarebbe, dunque, la constatazione, a seguito dell’esame di una serie di “indizi”, che esiste Dio, cioè un Essere primo dal quale tutto ha preso origine e dal quale tutto dipende. Per indagare questo mistero, che da sempre si pone come problema, l’uomo di ogni tempo ha cercato di impiegare al massimo la propria intelligenza mettendo a punto quelle che vengono indicate come le “prove” ormai classiche dell’esistenza di Dio. Ad esse sono andate affiancandosi nel corso dei secoli numerose altre indagini storiche, psicologiche, scientifiche destinate ad esaminare tutti quei “segni”, come per esempio i miracoli, che sembrano non riportabili alle capacità umane e che dunque suscitano grande interesse perché fanno intuire un legame tra questo nostro mondo e una realtà altra che sfugge alla nostra conoscenza ordinaria.
Tutto questo sforzo ammirevole che l’umanità ha prodotto nel corso dei millenni è certamente utile, anzi, è necessario. L’uomo, unico tra le creature, ha questa capacità logica di raccogliere dei dati, di riflettere su di essi collegandoli tra loro, di procedere a nuove e spesso ardite sintesi. Tutto ciò ha fatto sempre più avanzare la conoscenza che l’uomo ha di se stesso e del mondo. Anche riguardo al problema di Dio, credo che oggi si possa dire che, per chi guardi a questo tema senza pregiudizi, siano stati messi a punto elementi sufficienti per orientarsi verso una scelta positiva. È, dunque, ormai ampiamente dimostrato che supporre l’esistenza di un Essere superiore creatore e provvidente non significa affatto rinunciare alla propria ragione ma anzi utilizzarla al massimo grado fino al limite delle sue potenzialità.
Eppure per un credente tutto questo non è ancora “fede”. Pensare che Dio esista, intuire che esso è il creatore del mondo, ma vivere come se tutto questo non riguardasse l’uomo, non portasse alcun cambiamento nella sua vita non significa ancora credere in Lui.
La ragione infatti può portare fino alla soglia della fede ma non basta per compiere quel gesto interiore, quella scelta che la costituisce davvero. Ed è questa soglia l’ostacolo che molti non riescono ad oltrepassare, il limite che li mantiene nell’incertezza continua riguardo a Dio e al rapporto con Lui. Capita così di leggere nelle testimonianze di alcuni convertiti come essi spesso non fossero atei radicali prima di questa loro esperienza. Molti di loro avevano una vaga idea di Dio ma non avevano ancora realizzato con Lui quell’incontro interiore che avrebbe cambiato le loro vite. Ecco dunque, la parola giusta, quella che è in grado di definire davvero che cosa sia la fede: un “incontro” trasformante, un’esperienza interiore che cambia i punti di riferimento, l’ingresso nella nostra vita e non solo nella nostra ragione, di questo Essere supremo, la coscienza viva che a partire da quel momento Egli conterà molto per noi.
La vera fede, dunque, non è, non può essere proprio per la sua stessa natura, l’esito della sola ricerca razionale. È invece il frutto di un’esperienza profonda di tutto l’essere e soprattutto di quella intuizione che nasce dalla presenza in noi dello Spirito e che, da esso guidata, sa percepire La Verità. L’intelligenza, la ragione ci aiutano così a decifrare i “segni” della presenza di Dio nel mondo, le sue orme spesso incerte, ma è il cuore, inteso in senso biblico, cioè l’intuito spirituale che ci permette di andare al di là dei segni fino a raggiungerne l’Autore. Così, chi resta sul versante della sola ragione vivrà sempre nell’incertezza su Dio mentre chi, lasciando spazio alla intuizione, giungerà alla fede, scoprirà con gioia di avere un Padre. Come il grande Pascal che, dopo aver cercato Dio con tutta la profondità della sua straordinaria intelligenza, parlerà di “Fuoco, fuoco, fuoco” cercando di rendere conto del suo incontro con il “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, Dio di Gesù Cristo”.
Ma scoprirà insieme molte altre cose. Ad esempio la famosa affermazione di S. Agostino: “Credo ut intelligam”, cioè credo per capire.
Come dire: la ragione ha i suoi limiti insuperabili, non è possibile comprendere davvero chi sia Dio se non partecipandone il Mistero, vivendo all’interno della dinamica divina. E soprattutto capirà come la fede sia un dono, anzi, il dono più grande. Si accorgerà cioè, che quell’esperienza che ha trasformato la sua esistenza, quell’improvviso animarsi e prendere vita di quelli che fino ad allora erano per lui poco più che concetti, quel tocco che gli ha colpito il cuore è stato non il frutto di un suo sforzo, ma come una manifestazione.
Per un cristiano una piccola rivelazione all’interno della grande Rivelazione. Da parte sua c’è stato forse soltanto il desiderio di Dio, oppure l’esperienza di un abisso di dolore dal quale è sgorgata una muta, magari inconscia invocazione alla quale l’Amore ha risposto svelandosi. Segreti grandi e piccoli che chiunque li ha vissuti custodirà gelosamente nel proprio cuore e che mai potrà dimenticare.
Ma capirà anche che la fede, come si diceva all’inizio, è una virtù, anzi, è la virtù per eccellenza che fonda ogni altra buona intrapresa umana. Ed è tale perché essa nasce e vive nel tempo come rapporto, cioè come uno scambio reciproco di conoscenza e d’amore tra Dio e le sue creature. Come dice Gesù nel Vangelo, “Io sto alla porta e busso…”. Questo vuol dire che Dio è fedele; siamo noi che rischiamo sempre di essere infedeli, di rifiutare il dono che ci è stato fatto o di viverlo con una tiepidezza che lo sperpera e lo rende vano. Così la fede va custodita con cura, alimentata con la preghiera, vissuta con un abbandono e una fiducia sempre più grandi.
Non dimentichiamo mai quel: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. Così, solo se sapremo vigilare in attesa dello sposo saremo pronti al suo arrivo. Solo se saremo liberi da ogni idolatria mondana riusciremo a intravedere la sua presenza anche in mezzo alle tenebre che inevitabilmente accompagneranno non pochi momenti della nostra vita.
Bibliografia
Blaise Pascal, Pensieri, ed. Oscar Mondadori, 2003.
Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 1998.
IL TIMONE – N. 44 – ANNO VII – Giugno 2005 – pag. 56-57