15.12.2024

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“La vita non è degli scienziati”
31 Gennaio 2014

“La vita non è degli scienziati”

 

 

 

Il genetista Giuseppe Sermonti contro la pretesa di un diritto a eliminare le persone “difettose”. Così non solo non si elimina il dolore dalla faccia della terra, ma si concella il sacrificio che si applica per superare le difficoltà della vita. L’uomo non può essere ridotto al suo DNA.

 

 

Chissà: forse ha cominciato ad occuparsi di cellule, di spermatozoi, di Dna e insomma di genetica perché ha un fratello gemello; e la curiosità di vedersi esattamente specchiato in un altro gli ha suscitato una catena di «perché» che toccavano da vicinissimo l'origine della vita.
Comunque sia Giuseppe Sermonti, che oggi ha 79 anni ed è docente di Genetica (prima all'università di Palermo e poi in quella di Perugia) in pensione, dello studio dell'uomo nelle sue fasi iniziali ha fatto l'impegno di una ricerca anche esistenziale, raggiungendo non solo vertici di carriera ragguardevoli (è stato – per esempio – presidente dei genetisti italiani) ma pure un'originalità di pensiero non facile da trovare in uno scienziato. E l'ha espressa in vari libri, tra cui Il crepuscolo dello scientismo (contro la pretesa assolutista del positivismo) e Dimenticare Darwin, per confutare le teorie dell'evoluzionismo.

Professor Sermonti, potrebbe cominciare a spiegarci quali sono le pratiche eugenetiche che vede più rischiose e perché?
«La peggiore, a mio parere, è l'analisi dell'embrione pre-impianto, che poi contempla l'eliminazione degli embrioni "difettosi". È una pratica pericolosa perché si possono fare spiacevoli selezioni contro le femmine (come per esempio è avvenuto in India o in Cina) o rispetto ad alcuni caratteri sgraditi. Ciò che si può fare in genetica è molto poco, in definitiva, tranne appunto l'eliminazione dei tarati. Ma c'è una questione che mi preoccupa ancor di più».

E sarebbe?
«Il fatto di intromettersi nella generazione, nel destino di una creatura appena concepita, e compiere così un atto dissacrante. Che poi è l'aspetto cui danno maggior peso i sostenitori dell'eugenetica: i quali sostengono che non si può fermare la scienza e accusano di essere fuori tempo coloro che si oppongono. È l'idolatria del mito del progresso che mi angoscia, non tanto il pericolo di costruire in vitro un uomo speciale: quello non si farà mai».

Come, non si farà mai?
«Ma sì: i geni hanno tutto sommato una parte una modesta nel determinare le qualità dell'uomo; semmai ne stabiliscono i difetti. Con la genetica dunque si migliora poco l'uomo in quanto specie, al massimo si possono scartare gli esemplari peggio riusciti. Ma con gli stessi geni si può fare un santo e un criminale, non c'è un determinismo così fisso».

Questo argomento però può essere usato anche a favore degli interventi genetici: se infatti non c'è pericolo di «modificare» l'uomo, perché non evitare almeno le sue anomalie?
«Già. Ma abbiamo il diritto di eliminare persone perché le consideriamo difettose o sofferenti? In questo modo molti dei nostri grandi poeti e santi sarebbero stati buttati via… E così facendo non solo non avremmo eliminato il dolore dalla faccia della terra, ma avremmo fatto di peggio: cioè avremmo cancellato il sacrificio che si applica per superare le difficoltà della vita. Molto spesso gli handicappati sono tali perché messi da parte, considerati anomali, invece di combattere con loro per costruire possibilità di vivere una vita degna. Senza contare che sono proprio gli esseri "infelici" i maggiori promotori dell'amore nel mondo».

Colpisce che in lei, scienziato, prevalgano le motivazioni umanistiche per sconsigliare le pratiche eugenetiche, piuttosto che quelle tecniche.
«È così. Il vero rischio è sul piano umano, non su quello scientifico. Certo, con le tecniche di manipolazione si corre anche il pericolo di danneggiare esseri umani. Ma non si fa un uomo solo col suo Dna: io ho un gemello identico a me, con lo stesso Dna; eppure la differenza tra noi è grandissima. Mentre, indipendentemente da tutti i rischi tecnici, è importante che i figli vengano al mondo come Dio comanda: cioè che vengano concepiti, siano partoriti, vengano allattati, ec-cetera eccetera. Tutte le altre soluzioni sono sempre protesi, artifici, ripieghi».

Ma a volte sono necessari: come il biberon per una madre senza latte.
«Sì. Ma intanto bisogna cominciare a non dire che sono meglio, come pure è stato detto per gli embrioni in vitro: possiamo controllarli come vogliamo, mentre in natura non ci è possibile. Mantenerci sulla linea naturale dà un orizzonte molto più ricco di quello artificioso. Ciò che deploro nella fecondazione eterologa, ad esempio, non è tanto che si ricorra a una terza persona, quanto il fatto di spacciarlo per un procedimento medico: invece il marito sterile non viene affatto guarito né curato, viene solo sostituito. E il bambino entra in famiglia sotto uno statuto falso».

Lei dunque considera l'eugenetica da un punto di vista umano, prima ancora che religioso.
«Umano ed etico, direi. Non voglio mettermi a parlare di categorie religiose e teologiche, perché non sono un teologo. Ma nell'eugenetica noto aleggiare un gusto della dissacrazione: vogliamo mettere le mani dove non ci spetta, stabilire dei destini che non toccano a noi… Chi è credente, poi, potrà aggiungere che siamo figli di Dio, prima ancora dei nostri genitori».

«Figli del caso», direbbe piuttosto un ateo…
«Certo, ci dev'essere nella nascita un elemento che ci sfugga completamente. Guai se i figli li scegliessimo o li disegnassimo noi: tracceremmo scarabocchi. L’uomo è di una complessità tale che se provassimo a costruirlo in provetta faremmo degli sgorbi. AI massimo possiamo modificargli qualche piccolo tratto, certo non fare una figura umana; neanche Michelangelo ci riuscirebbe. Per questo è bene che si conservi un elemento al caso, che poi è meglio chiamare provvidenza».

Oltre a tentare di «rubare» al Creatore il suo mestiere, la genetica può determinare un potere immenso di un uomo su un altro; di chi già esiste su chi sarà. O no?
«I genitori che si sottopongono alla provetta diventano gli strumenti dei medici. E la classe medica li sfrutta, acquista potere nella sua possibilità di eliminare, di sostituire alla cura lo scarto dell'embrione, o del feto, o addirittura del marito sterile. Sono tutti procedimenti di eliminazione dura, mentre una vera "eugenetica" comporterebbe che l'individuo fosse migliorato e non buttato via. Si potrebbe fare attraverso la terapia genica o la modifica germinale; ma per ora i tanti tentativi compiuti (tutti falliti) sono stati sul soma, non sull'uomo».

Non la spaventa dunque la creazione di uomini-schiavi, di robot obbedienti, di eserciti di cloni, come talvolta vediamo nei film di fantascienza?
«No, non mi preoccupa. È talmente irrealistico… Creare tanti gemelli uguali tra loro non è impossibile; è impossibile invece ottenerli a partire da un adulto, attraverso la clonazione. Gli animali prodotti con questo processo non sono stati dei successi: vengono male, sono tarati, infelici, vecchi. La tecnica comporta tanti inconvenienti. Un po' si migliorerà, sì; ma per l'uomo non vedo nessuna prospettiva utile. Per gli animali qualcuna in più: però così incerta e lontana…».

Dossier: Il ritorno di Erode

IL TIMONE  N. 38 – ANNO VI – Dicembre 2004 – pag. 42 – 43

 

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