Un discorso di papa Francesco sulla missione e sul suo significato.
Il mutamento culturale e istituzionale con il venir meno della cristianità. La necessità di annunciare la fede anche al di fuori dei contesti tradizionali. Il ruolo dell’Evangelii nuntiandi di Paolo VI
Forse perché “a braccio”, forse perché si prestava poco ai soliti titoli “sparati” dai giornali nella speranza di aumentare le vendite, ma il discorso di papa Francesco del 27 novembre sulla pastorale nelle grandi città avrebbe meritato maggiore attenzione. Esso ci aiuta a riflettere su un passaggio fondamentale della nostra epoca post-cristiana e anche post-moderna, cioè successiva all’epoca delle ideologie.
Il passaggio consiste sostanzialmente nel riconoscimento, da parte del Magistero, che siamo entrati in una nuova epoca della storia contrassegnata dalla fine delle ideologie dell’Ottocento e del Novecento, ma anche da una conferma della secolarizzazione cominciata e continuata dopo la Rivoluzione francese. In questa epoca, il cristianesimo non rappresenta più l’unico o il principale riferimento culturale delle popolazioni e anche le culture ufficiali tendono a relegarlo nell’ambito delle cose private.
Papa Francesco ha descritto così questo tempo: «Veniamo da una pratica pastorale secolare, in cui la Chiesa era l’unico referente della cultura». «È vero, è la nostra eredità» ha proseguito, ma non possiamo fare finta di non vedere che è necessario cambiare approccio con le persone che vivono in questa «società plurale», per usare le parole dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola.
Dopo la cristianità
Si deve cambiare dunque dice il Papa: «Non siamo nella cristianità, non più. Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati».
La cristianità è quella realtà sociale e istituzionale che accompagnò il millennio della fede, il frutto
della prima evangelizzazione, dall’editto di Milano nel 313 alla fine del Medioevo nel XIV secolo. Fin che ha potuto la Chiesa ha difeso, con la parola e con la testimonianza, questa societas christiana, che aiutava i piccoli e i poveri a vivere nella fede permettendo loro di stare in un ambiente cristiano, così aiutandoli a superare le tentazioni del “mondo”.
I pericoli del cambiamento
Ma quando si impone un cambiamento si possono facilmente determinare due diversi atteggiamenti. Il primo è di chi ha paura di cambiare ed è restio ad abbandonare il suo modo di vivere e presentare
o difendere la fede. L’altro errore, invece, è quello di chi vuole cambiare anche quanto la Chiesa deve semplicemente trasmettere, certamente arricchendo e favorendo una maggiore comprensione del deposito, e il suo sviluppo, come scriveva il beato card. John Henri Newman, ma senza alterare il patrimonio ricevuto. Molte eresie, fra cui il modernismo all’inizio del Novecento, sono nate in un contesto culturale e sociale in cui si imponeva un cambiamento, per rendere più efficace l’apostolato: approfittando del clima di trasformazione culturale esterno alla Chiesa, e della necessità di farvi fronte non semplicemente ripetendo il “sempre detto”, ma affrontando, smontando
e contestando gli errori diffusi, molti cattolici anche autorevoli hanno cominciato a seminare dubbi e confusione, quando non veri e propri errori.
La pastorale relativista
«Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale», continua il Santo Padre, «ma non di una “pastorale relativista” – no, questo no – che per voler esser presente nella “cucina culturale” perde l’orizzonte evangelico, lasciando l’uomo affidato a sé stesso ed emancipato dalla mano di Dio».
La pastorale relativista oggi indubbiamente è molto diffusa. Essa si manifesta a volte in modo esplicitamente contrario all’insegnamento cristiano, che cerca sempre di educare alla ricerca della verità delle cose, che insegna quanto rivelato da Dio e proposto dalla Chiesa, che sa come la verità
non si costruisca sommando le opinioni, ma contemplando la realtà, il progetto di Dio rivelato nella Creazione e nella Rivelazione cristiana. Ma più spesso la pastorale relativista si presenta come disattenta ai contenuti, preoccupata soltanto del modo di trasmettere, dell’organizzazione della catechesi piuttosto che dei contenuti della stessa.
«No, questo no. Questa è la strada relativista, la più comoda. Questo non si potrebbe chiamare pastorale! Chi fa così non ha vero interesse per l’uomo, ma lo lascia in balìa di due pericoli ugualmente gravi: gli nascondono Gesù e la verità sull’uomo stesso. E nascondere Gesù e la verità sull’uomo sono pericoli gravi! Strada che porta l’uomo alla solitudine della morte (cfr Evangelii gaudium, 93-97)». È sempre papa Francesco a parlare.
Il precedente di Paolo VI
Tuttavia non è il primo a dire queste cose. Lui stesso ama ricordare il lontano 1975, quando Paolo VI scrisse l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, che costituisce il punto di riferimento di tutti i movimenti nati negli anni successivi al Concilio Vaticano II e impegnati in quella che san Giovanni Paolo II chiamerà la nuova evangelizzazione degli antichi Paesi di tradizione cristiana.
In quell’anno, il mondo sembrava ancora correre il rischio di finire sotto il totalitarismo comunista. Saigon e il Vietnam cadevano sotto un regime da cui non si sono ancora liberati. In Italia, Paolo VI indiceva l’Anno Santo in un Paese già traumatizzato dal diffondersi della contestazione e del terrorismo delle Brigate Rosse e nel quale si preparava il tentativo di portare il Pci al governo con il cosiddetto “compromesso storico”. Pur attento a questi problemi, il Papa capiva che la Chiesa doveva cominciare a battere la strada dell’annuncio della fede, che sempre meno veniva trasmessa attraverso i canali tradizionali, la famiglia e la parrocchia.
A quel testo si ispirarono le Sentinelle del Mattino, le comunità di evangelizzazione parrocchiale e in generale coloro che compresero la priorità dell’annunciare la fede in un mondo che se ne allontanava sempre di più. Una priorità cronologica ovviamente, che avrebbe poi avuto bisogno della catechesi per coloro che avrebbero conosciuto (o riconosciuto) il Signore.
Ancora papa Francesco, nell’omelia conclusiva del Sinodo straordinario sulla famiglia, celebrando la beatificazione del suo Pontefice predecessore ricordava «la grandezza del Beato Paolo VI che, mentre si profilava una società secolarizzata e ostile, ha saputo condurre con saggezza lungimirante – e talvolta in solitudine – il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore» (Francesco, omelia del 19 ottobre 2014). Saggezza e solitudine che gli sono costate tante incomprensioni, soprattutto dopo il 1968 e la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, ma che alla fine gli sono state riconosciute come occasioni di santificazione dalla Chiesa che ha servito. â–
Ricorda
«Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l’urgenza dell’evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la Chiesa può rendere a ciascun uomo e all’intera umanità nel mondo odierno, il quale conosce stupende conquiste, ma sembra avere smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza». (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, 1990, n. 2).
Per saperne di più…
Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975.
Francesco, Discorso ai partecipanti al Congresso per la pastorale nelle grandi città, 27 novembre 2014.
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