Ogni credente ha il dovere di avvicinare il mondo a Gesù. È fondamentale imparare a farsi vicini, a portare i pesi, a fare pezzi di strada insieme. Bisogna sempre ascoltare l’altro, capire la sua condizione spirituale, fargli percepire che lo amiamo comunque
Una delle cose che so fare meglio, insieme allo sformato di fagiolini e agli smokey eyes (modalità di trucco per gli occhi, ndr), è parlare di Gesù mischiandolo ad altri argomenti. Forse non è un gran che, come carisma, ma è il mio, che ci vogliamo fare. C’è chi ha il dono della profezia, chi è santo in modo smaccato e travolgente, chi ha discernimento, chi guarisce, c’è chi ha il dono delle lingue, chi prega molto e con profondità, ci sono i mistici, i biblisti. Io mischio la fede con i pidocchi dei figli, il breviario con le pagine di Vogue e i film visti al cinema, e anche le notizie del quotidiano con le vite dei santi. Non riesco a vedere nessuna realtà se non in rapporto al suo significato eterno. Ripeto, ci sono doni sicuramente più preziosi, ma questo è quello che è capitato in dotazione a me.
Tutti abbiamo l’obbligo di portare le persone ad amare Cristo
Probabilmente il Grande Capo mi vede adatta ad andare in partibus infidelium, a parlare alle persone che magari non si sono mai interessate troppo a Lui. Quando poi il gioco si fa duro devono essere altri a giocare, probabilmente, e infatti, per dire, se le domande che mi fanno nei miei incontri pubblici si fanno troppo elevate, cerco sempre con lo sguardo se c’è tra la gente qualcuno che ha studiato davvero teologia, meglio se è un sacerdote: ognuno ha la sua parte nel disegno divino. Io ho le mie incursioni in territori stranieri.
Purtroppo, sia chiaro, non sono altrettanto brava a incuriosire e attrarre i miei figli, perché in quel caso in me prevale la sindrome della maestrina che affligge tutti i miei tentativi educativi, rendendomi istantaneamente soporifera, ogni volta che tento programmaticamente di insegnare qualcosa con le parole alla mia prole (qualche giorno fa sono tornata a casa con aria trionfante e ho annunciato: ragazzi, ho una sorpresa per voi! E uno: sarà una medaglietta. L’altro: un rosario. Un’altra: come minimo un libretto di preghiere. È superfluo dire che era effettivamente una delle risposte ipotizzate, per la precisione l’ultima). Eppure ormai dovrei avere capito che i figli ascoltano con gli occhi, e imparano solo quello che ci vedono vivere.
Comunque, quale che sia il nostro talento, visto che amare e far amare Gesù è la chiamata di tutti, la domanda «come evangelizzare? » ce la dovremmo fare tutti, e spesso, in tutte le situazioni.
Capire la situazione dell’altro
Credo che il punto centrale sia più di tutto capire a che punto del suo cammino stia l’altro, e intercettarlo in quel punto. Non è facile, e non sempre ci si riesce, se non grazie allo Spirito Santo. Altrimenti bisogna affidarsi alle proprie forze, che non sempre funzionano proprio alla grande.
Per esempio, e perdonate la grossolanità e l’approssimazione, ma è per capirci: se quello che abbiamo davanti è sì un cattolico, ma magari un po’ irrigidito in certe posizioni, si può cercare di farlo ammorbidire un po’, di mostrargli la necessità della gradualità e della tenerezza nell’apostolato
verso gli altri, sottolineando le debolezze umane.
Se invece stiamo parlando a una platea di cattolici progressisti, di quelli che «sì, vabbè la Chiesa, ma quello che conta è il rispetto » (sentito con le mie orecchie), allora certo servirà ricordare che l’unica garanzia che ciò in cui crediamo non sia un parto della nostra fantasia è il magistero della Chiesa.
Se poi parlo a una schiera di studentesse universitarie lanciatissime nella futura carriera sarò molto precisa nello spiegare la sottomissione di cui dice san Paolo, e nel definire il genio femminile per la relazione descritto da san Giovanni Paolo II; mentre alle mamme di famiglie numerose non dovrò spiegare cosa significhi la chiamata della donna all’accoglienza, perché loro la vivono già ogni giorno.
Siamo in ogni momento in missione per Dio
Credo che questa ginnastica la dobbiamo fare tutti, noi cristiani, non solo chi come me è chiamato a volte a parlare di fronte a delle platee, perché ognuno di noi è in missione per conto di Dio come i Blues Brothers (del famoso film), che sia di fronte a seicento persone in un teatro o a due colleghe dirimpettaie di scrivania, o ancora al vicino di posto in treno. A volte siamo molto accorti nel gestire tanti ambiti della nostra vita, mentre in quella spirituale improvvisiamo un po’, o almeno non usiamo tutti i talenti, la furbizia, la capacità di progettare e di scegliere che abbiamo.
Io credo che in questo possiamo, dobbiamo imparare molto dal Papa. Francesco (non so se sia come dicono perché è un gesuita – confesso di non conoscere abbastanza la spiritualità di sant’Ignazio -, o per il suo carattere o per la vocazione), fa un po’ così direi. Come il suo confratello del passato Ricci, fa il cinese con i cinesi: come quando telefona a Pannella per augurargli buon lavoro. La prima reazione è pensare: «Ma non lo sa che il lavoro di Pannella, finora, è stato quello di portare il contrario dei nostri valori nella cultura e nella legislazione del nostro paese? Ma lo sa quanta morte ha portato e diffuso qui in Italia?».
Poi mi ricordo di quell’episodio che a volte racconta Franco Nembrini, grande educatore e scrittore cattolico: di quando don Giussani, sollecitato dalla madre di Nembrini, preoccupata perché uno dei tanti fratelli di Franco si era prepotentemente allontanato dalla fede, rapito da una passione politica di estrema sinistra, inviò al ragazzo una cassa piena di libri, ma non con testi sacri o di apologetica. No. Gli mandò testi di Marx e Engels, i libri che lui voleva leggere. Infatti, l’altro, scrive Nembrini, lo incontri prima di tutto dove sta lui.
Ecco, credo che questa sia una grande lezione.
Il ragazzo fu molto colpito da quel sacerdote che gli voleva bene per come era, anche prima che cambiasse. Allo stesso modo una mia amica sposata l’altro giorno mi raccontava «comunque alla fine io posso dire quello che voglio, ma mio marito mi ascolta davvero e si convince quando vede che io perdo qualcosa per lui. Quando gli porto la medicina, o magari lavo anche la sua tazza.
Non quando gli faccio le prediche sulla preghiera».
In ascolto dell’altro
Mettersi in ascolto dell’altro, veramente, è una bella fatica. Non significa essere meno convinti di avere una Verità da portare (che non è la nostra verità, ma quella con la maiuscola, quella di Dio, garantita come si diceva dal magistero della Chiesa), ma vuol dire prima di tutto volere bene alla persona che stiamo incontrando, e volergliene proprio ora, adesso, nel punto in cui sta, lontana o vicina che sia.
Non mettersi mai in conflitto, anche quando ci verrebbe naturale, ma partire sempre dal cercare di capire chi è, e cosa gli serve per stare bene, ma bene veramente (e noi sappiamo Chi gli serve).
Viviamo in un mondo che ha perso i fondamentali della fede, non parla più quella lingua, tante volte non siamo neanche in grado di capire esattamente di che cosa parli il Vangelo e allora il nostro lavoro di traduttori delle verità della fede diventa oggi più fondamentale che mai. Forse anche il mio talento – mischiare Gesù e borse e smalti – ha un suo perché, allora.
Ma più di tutto quello che serve è imparare a farsi vicini, a portare i pesi, a fare pezzi di strada, a volte serve anche solo ascoltare, scendere dalla cattedra e imparare anche noi come il Papa il cinese, per poter parlare coi cinesi. â–
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