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15.12.2024

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L’adilà , se c’è, non è abitato da Dio
31 Gennaio 2014

L’adilà , se c’è, non è abitato da Dio

 

Un film “sdogana” la domanda tabù del nostro tempo su che cosa ci attende dopo la morte. Ma la risposta appare insufficiente



 

Non precipitiamo nel nulla con la fine della vita terrena. Anzi, saremo in una condizione di perenne pace e serenità. Questa è la tesi di Hereafter di Clint Eastwood. Che ignora la possibilità che ci sia Qualcuno che ci ama e ci aspetta

Abbiamo paura di morire e vogliamo che non finisca tutto in cenere, desideriamo che ci sia qualcosa dopo la morte. Ma in questo “qualcosa” non c’è spazio per “Qualcuno”. L’aldilà, se c’è, non c’entra con Dio. Questo era stato documentato da un’inchiesta di qualche anno fa condotta a Roma per conto del Vicariato sulla fede dei più giovani, questo è ciò che emerge da un film di Clint Eastwood uscito di recente nelle sale italiane, Hereafter (appunto aldilà, in inglese), che pure ha qualche merito.
Nell’indagine commissionata nel 2003 dal cardinale Camillo Ruini – allora vicario del Papa – sulla religiosità dei ragazzi romani, alla domanda sull’aldilà risultano essere pochi gli intervistati che negano una vita dopo la morte. E comunque mai in modo netto: quasi tutti tengono aperto almeno uno spiraglio, legato a un sentimento angoscioso di fronte all´idea della propria fine o allo strazio per la scomparsa di una persona cara. Ma anche la grande maggioranza di coloro che credono in un aldilà lo immaginano in modo lontano dalla tradizione cattolica. Del paradiso, dell´inferno e del purgatorio, solo il primo continua ad avere un po’ di credito. L´inferno è abolito quasi da tutti, compresi quelli che affermano di appartenere a movimenti ecclesiali. Il purgatorio è praticamente estinto. Resta il paradiso, ma la vita paradisiaca nel mondo futuro quasi tutti la descrivono senza che Dio vi sia presente. Un sogno, più che una certezza, una proiezione dei nostri desideri, più che l’incontro con un Altro. Insomma, roba da New Age.

Il rimpianto, l’indignazione, l’elogio

Appare abbastanza evidente che viviamo in una società e in una cultura che hanno abolito la morte. O meglio, l’hanno censurata. Semplicemente non ha più cittadinanza. Se ne deve parlare il meno possibile, frettolosamente, senza approfondire più di tanto la questione. Di una persona defunta restano il rimpianto della sua perdita se è una persona a noi vicina, l’indignazione se è un nostro soldato morto in un teatro di guerra o un comune cittadino colpito a morte durante una rapina, al più il commovente elogio funebre se ci ha lasciato un personaggio illustre, come può essere un noto attore o uno sportivo di fama. Poi si deve dimenticare in fretta, perché la vita va avanti, e tutto si “consuma” in questa vita, che è l’unica che ci è data: perciò, se ci riusciamo, godiamocela, puntiamo al benessere e ai buoni sentimenti, giusto per stare in pace con la coscienza (anche se non è chiaro a Chi dobbiamo poi rispondere delle nostre buone, o cattive azioni). E se è solo l’esistenza terrena che conta, che ha valore, va vissuta al meglio, spremuta, e poi mollata. Come si fa con un meccanismo quando non “funziona” più. Perché allora scandalizzarsi se, di fronte a sofferenze insopportabili, o a una malattia incurabile, c’è chi vuole farla finita? L’eutanasia è figlia della cultura che censura la morte.

Il “contatto” con i defunti
Ma perché ci convinciamo che finisca tutto con la morte e non ci sia nulla “dopo”? Perché l’uomo non sa rispondere, da solo, alla domanda terribile su che cosa ci aspetta quando abbiamo esalato l’ultimo respiro.
E allora preferisce censurare la domanda. Ma non è possibile, è una domanda ineludibile. Anzi, la domanda più importante, la domanda delle domande. Ne è convinto Clint Eastwood, che nel suo film Hereafter (buon film, ma non è il capolavoro del “miglior narratore del cinema contemporaneo ») racconta tre storie, tre persone che in tre luoghi diversi (San Francisco, Londra, Parigi) si interrogano su eventi drammatici a loro accaduti, sul dolore e sulla morte. E tre sono anche le conclusioni-riflessioni cui giunge il film.
La prima è che l’aldilà esiste: è una sorta di Eden dove i nostri cari defunti, e noi quando sarà il nostro turno, possiamo godere di benessere, serenità, pace. E addirittura ci sarebbero degli studiosi – la pellicola ce ne fa conoscere una – in grado di documentarne l’esistenza, ma la comunità scientifica razionalista e scettica li ha emarginati e ridotti al silenzio. La seconda conclusione è che l’aldilà è una cosa seria, che non può essere lasciato in gestione ai ciarlatani (memorabile la sequenza di imbroglioni che fanno credere a uno dei personaggi del film, il ragazzino che ha perso il gemello, di essere in grado di mettersi in contatto nei modi più fantasiosi con il suo fratellino, morto tragicamente in un incidente stradale). La terza conclusione è che c’è un rapporto misterioso tra il mondo dei vivi e quello dei morti, persino una possibilità di “contatto”. Che però presenta dei rischi: il sensitivo interpretato da Matt Damon definisce la sua capacità di entrare in rapporto con i trapassati una “condanna” più che un “dono”, salvo poi farlo l’ultima volta a fin di bene, per dare conforto allo sconsolato ragazzino. Tra l’altro, il contatto con l’Aldilà può trasformarsi anche in una imprevista “possibilità educativa” in un mondo ormai drammaticamente privo di punti di riferimento: infatti i nostri cari estinti ci “comunicano” messaggi di saggezza e consigli pratici utili alla vita terrena.

La vita eterna si fonda sulla Risurrezione
Che cosa manca alla vicenda narrata dall’ex pistolero oggi maestro della cinepresa? Manca l’aspetto religioso. Nell’aldilà da lui descritto, o intuito, non c’è posto per Qualcuno che ci aspetta a braccia aperte. Ci sono solo fantasmi (così ci appaiono) che apparentemente sono beati e felici, in realtà si ripropongono tali e quali in un’altra dimensione. Non hanno incontrato il proprio Creatore, non hanno compiuto il cammino della conversione, non hanno già sperimentato nella vita terrena il «centuplo quaggiù», non hanno vissuto l’esperienza della comunione cristiana, “anticipo” della vita eterna. Così Hearafter ha il merito di aver riaperto la domanda sulla vita dopo la morte, ma per richiudere quella stessa domanda nel recinto di un’illusione. L’aldilà senza la vita eterna, l’aldilà senza Dio, l’aldilà senza Risurrezione. Perché accade? Perché nell’aldiqua si vive una vita senza Cristo, il ricapitolatore di tutte le cose, il Salvatore dell’uomo. Solo con Cristo l’aldilà diventa Aldilà, con la «a» maiuscola. E anche il Paradiso riacquista l’iniziale maiuscola e tutta la sua luce divina. Here (qui) after (dopo): il qui, la mia vita attuale, che diventa vera e definitiva nel dopo, intravisto come promessa. Non un semplice After Day, un “giorno dopo” ancor più vuoto del “giorno prima”.

RICORDA

«Credo che il ricongiungimento nell’aldilà con i nostri cari vada proprio inteso in senso letterale, perché non è che là saremo tutti come le acciughe nel barile… Sono convinto che effettivamente i rapporti umani ci saranno; e del resto la grandezza di Maria, che certamente ha una posizione di privilegio nell’aldilà, è fondata su un rapporto umano, sul rapporto di maternità con Gesù Cristo. Quindi io credo che tutto questo ci sarà. Anche l’amicizia ci sarà. Tutto ciò che è autenticamente umano, sia pure trasfigurato, avrà un’eco nel Regno di Dio».
(cardinale Giacomo Biffi, da un’intervista a Raidue del 5 agosto 19)

 

 

 

 

 

IL TIMONE N. 100 – ANNO XIII – Febbraio 2011 – pag. 16 – 17

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