Premetto, dando inizio a queste riflessioni su alcune virtù umane, che farò spesso riferimento agli insegnamenti di uno dei grandi santi dei tempi moderni, san Josemaria Escrivà: e ciò non solo per la rilevanza che il suo messaggio ha nella mia vita personale, ma soprattutto perché esso mi sembra adattarsi con incisività alla vita quotidiana di ciascun essere umano, credente o non.
Può sembrare strano cominciare a parlare delle virtù umane partendo dall'allegria. Eppure, questa può essere considerata il presupposto di tutte le altre virtù, che senza una certa dose di allegria e di buon umore finiscono spesso per incupirsi, diventando quasi una camicia di forza, poco piacevole per sé e poco allettante per gli altri. Già la saggezza biblica insegna che «la malinconia ha rovinato molti, da essa non si ricava nulla di buono» (Sir. 30,23).
Parlando di allegria non ci riferiamo a una ottusa e beota serenità che nessun contrattempo può scalfire, ma alla capacità di vedere i risvolti e gli aspetti positivi di persone, cose, avvenimenti e circostanze in cui ci si imbatte quotidianamente: solo questa capacità riesce a creare – in famiglia, sul lavoro, nel rapporto con gli altri – un clima disteso di fiducia, di stima reciproca, di realismo con cui si risolvono molti problemi, si evitano malumori, si smorzano ribellioni, si troncano vittimismi, perché le cose che non vanno bene vengòno individuate con chiarezza ma con garbo e con affetto, nella persuasione che le persone possono migliorare, che le situazioni sono ben di rado drammaticamente irreversibili e che gli errori non vanno minimizzati ma neppure sono, in genere, irrimediabili.
I mezzi per ottenere quel clima sono i più diversi, a seconda dei temperamenti: chi userà un umorismo di tipo inglese, o manzoniano, basato sull'understatement e sull'ironia (che naturalmente deve saper partire da se stessi); chi scioglierà i grumi inevitabili della convivenza con una battuta o una risata liberatoria – quel «fresco fiore di campagna appena colto che Dio ha concesso all'uomo e ha chiamato risata», secondo la bella espressione di Ray Bradbury; chi riuscirà a sdrammatizzare situazioni ingarbugliate mediante un sapiente uso del ridicolo; chi si servirà della difficile arma del paradosso, e via dicendo. Quello che conta è saper apprezzare quanto c'è di buono e bello al mondo, sapersi stupire e rallegrare, non dare tutto per scontato, e dunque anche saper essere grati agli altri per i loro pregi e le loro attenzioni: in una parola, sapersi divertire con gli aspetti più ordinari della vita, senza aspirare a cose eccezionali o straordinarie (e io sono convinto che il Signore ci chiederà conto, un giorno, per le occasioni di allegria e di buon umore che ci ha offerto, e che non abbiamo saputo cogliere…).
Alla base sta un atteggiamento di fondo basato sull'ottimismo: che, attenzione, non vuoi dire sciocca fiducia che comunque le cose andranno a finir bene, ma realistica consapevolezza di come stanno davvero le cose, capacità di vedere la bottiglia mezza piena senza concentrarsi soltanto sui lati negativi (dei quali peraltro ci si rende ben conto), e convinzione che l'uomo può migliorare: solo dal miglioramento delle persone, del resto, può derivare il miglioramento del mondo e della società, e non dal cambiamento delle strutture, come pensa invece il pessimista (che partendo dall'illusione di riuscire a creare l'homo novus, finisce per ingabbiarlo nel più devastante totalitarismo).
Già sul piano umano, dunque, il buon umore è sempre una virtù, mentre la serietà può essere un vizio, come diceva Chesterton, aggiungendo che Satana è precipitato dal cielo per forza di "gravità" (e sarà forse per questo che tanti sospetti destano quei politici che sbandierano con fastidiosa insistenza la loro "serietà"); ed è sempre una virtù preziosa, anche per ridimensionare «quella cosa troppo invadente che si chiama io», di cui parla san Tommaso Moro in una celebre preghiera nella quale chiede al Signore, fra l'altro, proprio «il senso del ridicolo». Se ci si colloca in una prospettiva di fede, si scopre che l'allegria dovrebbe essere, per così dire, «connaturale» al cristiano, perché non si tratta dell'allegria «fisiologica, da animale sano», ma dell'allegria di chi sa di essere figlio di Dio (san Josemaria Escrivà, Cammino, n. 659), e quindi sa che, «per coloro che amano Dio, tutto concorre al bene», come dice San Paolo nella lettera ai Romani. Occorre quindi reagire contro quel cristianesimo spento, triste, pessimista in cui non di rado ci si imbatte e che in qualche modo spiega tanti atteggiamenti di ostilità e di pregiudizio difficili da sfatare. L'allegria è anche una virtù difficile, perché deve riuscire a convivere con dolori, insuccessi, contrarietà, e ha perciò, molto spesso, «le radici in forma di croce», come era solito sottolineare san Josemaria Escriva: ma questo, anziché scoraggiare e indurre al pessimismo, deve spingere alla fiducia e alla speranza, nella convinzione che – come ricorda un Padre apostolico del secondo secolo – «l'allegria trova sempre grazia davanti a Dio e Gli è bene accetta (…) L'uomo allegro opera il bene, pensa il bene e disprezza la tristezza» (Pastore di Erma, X, 3,1).
IL TIMONE – N. 41 – ANNO VII – Marzo 2005 pag. 47