Dino Buzzati
Il destino di un artista è segnato in partenza da uno stemma, una visione e una chiamata che esigono una risposta piena. C’è una poesia giovanile scritta da Dino Buzzati (nato nel 1906 e morto nel 1972) che contiene come una gemma lo sviluppo della sua opera:
«Non si deve dimenticare / dopo la terra viene il mare / dopo il mare c’è ancora la terra / dopo la pace arriva la guerra / dopo la terra viene il mare / più in là è inutile cercare / dopo il mare c’è ancora le onde / se io chiamo, nessuno risponde / nessuno risponde alla nostra voce / tutto intorno è silenzio atroce» (lettera del 1928 al caro amico Arturo Brambilla).
Una ricerca di Dio senza risposta
La filastrocca, che allude a una ricerca di Dio mai terminata, s’intitola Filosofia della vita: l’autore era ventiduenne e, per i successivi quarantaquattro anni sino alla morte, Buzzati non ha fatto altro che variare sul tema di questa sua visione. I racconti, gli articoli, le opere fantastiche uscite in seguito dalla sua penna riveleranno il medesimo uso delle parole in maniera egregia, l’intelligenza della trama, l’atmosfera sospesa tra sorpresa, realtà e sogno.
All’estremo opposto, però, si trova un’altra poesia, scritta a mano sulla pagina 25 di un quaderno di appunti buzzatiano del 1957 (e inedita sinché l’affettuoso lavoro di Lucia Bellaspiga non l’ha offerta ai lettori quasi mezzo secolo dopo), intitolata L’addio:
«Dio che non esisti ti prego / che almeno su questa grande nave / che mi porta via / le cabine siano… siano bene aerate / e al mattino la prima colazione / comprenda marmellata inglese di pomodoro / burro, crème di rape, salmone affumicato / salmone di Modena a fette sottili / Ma perché lo preghi se non esiste? / Non esiste fintantoché io non ci credo / finché continuo a vivere come viviamo tutti / desiderando desiderando / ma se io lo chiamo… / Troppo tardi… / Per la forza terribile dell’anima mia, / forse vile, trascurabile in sé / però anima nella piena portata del termine, / se io lo chiamo verrà».
Così, con un tono che ricorda il finto-colloquiale di Eugenio Montale, si consumò il dramma esistenziale di un grande giornalista: anzi, il dramma stesso del giornalismo novecentesco.
Un giornalista nello scorrere delle epoche
L’unica cosa a cui Buzzati restò fedele nella propria vita fu il proprio mestiere: entrato da giovane come praticante al Corriere della Sera, vi rimase per sempre, ligio al dovere di cronaca come una sentinella asburgica, simile al suo famoso personaggio, il tenente Drogo nel romanzo Il deserto dei tartari (1940).
Intanto, passavano in Italia le epoche: fascismo, seconda guerra mondiale, dopoguerra, miracolo economico; impassibile, Buzzati scrisse pagine che furono lo specchio ironico e magico della società italiana.
Basti ricordare le tristezze del romanzo d’esordio Il segreto del bosco vecchio, il pensoso ascolto della giovinezza perduta in Bàrnabo delle montagne, la favola per adulti La famosa invasione degli orsi in Sicilia, il pieno successo dei Sessanta racconti; lo scandaloso romanzo di eros e delusione (quasi autobiografico, dal titolo Un amore, uscito nel 1963) e le avveniristiche sperimentazioni grafiche del Poema a fumetti e dei falsi ex-voto de I miracoli della Val Morel.
Dalle montagne alle città
Di Buzzati, Piovene e Montale dissero: «poeta bambino». E proprio come un vecchio puer, fu artista tentato da tutte le forme, da tutti i generi, con ludica sfrontatezza: lo si vede nei suoi suggestivi disegni, come quel fascinoso Duomo di Milano proiettato nel futuro e trasformato in roccia dolomitica. Un adulto che ironicamente sapeva celarsi dietro l’impeccabile aplomb di un frequentatore della buona società meneghina, lui che era stato un taciturno bimbo nato a san Pellegrino di Belluno.
Spesso gli scenari e i paesaggi dei suoi scritti furono le montagne amate da sempre.
Un emblematico racconto del 1949, dal titolo Le montagne sono proibite, è la storia di una città prealpina nella quale si
vieta di guardare le montagne, ma dove i cittadini sono lacerati tra ossequio alla legge e il desiderio di pienezza di vita. Con immaginazione metaforica Buzzati sapeva colpire la mediocrità diffusa, con guanti bianchi.
L’altro scenario prediletto fu il notturno, il buio: da La notte a Conigli sotto la luna, da Plenilunio a Quando l’ombra scende, sempre in Buzzati l’oscurità è messaggera di mistero. È di notte che i condomini sentono La goccia colare su lungo le scale. Il capolavoro, in quest’ambito, resta l’ingenua leggenda notturna de Il babau, sospesa tra malinconia e dolcezza.
E quindi c’è lo scenario della città, sempre negativo: ne La giacca stregata, in ambiente cittadino si consuma una moderna versione della faustiana perdizione dell’anima per opera di un sarto dall’aria strana.
Il crollo della Baliverna è narrazione di un incubo progressivo che solo l’urbanesimo novecentesco può procurare ai suoi impauriti abitanti.
Buzzati stesso lo ammise: «Per chi immagina un inferno moderno, la città è evidentemente più adatta ad ambientarlo». Quando nell’aprile del 1964, inviato dal Corriere a raccontare gli scavi della Metropolitana Milanese, scrisse l’inquietante reportage dal titolo I segreti della MM, Buzzati affermò ambiguamente di «aver casualmente scoperto nel sottosuolo una piccola porta che immetteva all’inferno» e che «pare anzi che ce ne siano parecchie in ogni città […] solo che nessuno ne parla», perché nessuno è davvero «capace di uscire dalla cassa di ferro in cui si trovava chiuso fin dalla nascita, dall’orgogliosa cretina scatola della vita». Da questi panorami laceranti, sospesi tra la metropoli della perdizione e l’impossibile pace alpina (ricordiamo che fu anche sciatore e scalatore), Buzzati si congedò con un estremo viaggio per visitare la casa natale di San Pellegrino e la tomba della madre, nel dicembre del 1971: e il suo ultimo elzeviro venne intitolato Alberi.
Le (difficili) notti di Natale
Tutta la vita di Buzzati si era configurata come un lungamente previsto incontro con la morte, una moderna ars moriendi impermeabile all’altra vita promessa da Gesù Cristo: e questa fu la sua moderna tragedia, che non gli diede mai pace e che lo affratellò a intere generazioni di uomini del Novecento. Anche se in uno dei suoi racconti meglio riusciti, intitolato I Santi, era riuscito a sporgersi sulla vita dell’aldilà sospendendo quasi del tutto per un istante la tipica incredulità titubante e ironica dei “moderni”.
Oggi, malgrado i libri di Buzzati siano letti da un gran numero di lettori, la critica letteraria rilutta a includerlo nel canone dei grandi “novecenteschi” (nei programmi scolastici, è relegato nelle letture antologiche del biennio): per il fatto che egli fu apertamente anticomunista. La sua acida satira La rivolta dei cretini uscì sul Corriere il 23 maggio 1967 e canzonava l’ottusità egualitaria del socialismo reale e della politica di sinistra.
Infine, da grande descrittore del silenzio del tempo che nelle Notti difficili (l’ultima sua raccolta) turba gli uomini con il trascorrere inesorabile, Buzzati amava soprattutto la notte che ogni anno ci riporta all’innocenza dell’infanzia: la Notte Santa.
Nel Racconto di Natale, lo scrittore produsse un gioiello pur essendo un artista che non ebbe conversione. Nel racconto
tutto è normale: è la Vigilia, in città nevica, la cattedrale è fredda e deserta, l’arcivescovo vi è inginocchiato a pregare. Però si scopre il segreto: «quella sera il Duomo era traboccante di Dio». Poi avviene un fatto nella trama, che tacerò. Così, nell’affannata deambulazione natalizia di don Valentino (il segretario del vescovo) in cerca di Dio ritroviamo un’eco della leggenda agiografica di sant’Ambrogio il quale, acclamato vescovo a furor di popolo milanese ma volendovisi sottrarre, fuggì a cavallo nella nebbia della pianura: avendo cavalcato per tutta la notte, all’alzarsi della foschia, stremato,
smontò da cavallo e scoprì di essere arrivato… a Milano. â–
Il Timone – Dicembre 2014
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