Trenta anni fa moriva un poeta e scrittore che negli anni ’70 si era distinto per la difesa del popolo italiano «provinciale e non moderno», ragionando sull’anticattolicesimo radicale, sui danni prodotti dal Risorgimento, sulla dittatura ideologica dei mass-media. Il tutto con una prosa stupenda
«Negli anni ’70, era impossibile non conoscerlo»: così scriveva Maurizio Blondet in un vibrante articolo su Avvenire (luglio 1995), aggiungendo: «partecipava fra il pubblico a tutti i dibattiti culturali a Milano e ogni volta si alzava per intervenire, polemizzare, puntualizzare. Ma parlava per paradossi […] che lui enunciava quasi senza volere, ma che parevano ricercati; e risultavano troppo irritanti per il senso comune corrente, essendo frutto di una cultura e di una libertà di giudizio estranea alla maggior parte dei presenti». Rodolfo Quadrelli, prosegue l’articolo che stiamo citando, «prendeva le difese del popolo italiano “provinciale e non moderno” contro la modernità: “meno fatti, più parole”, diceva. Contro i laicisti alla Bocca e alla Eco giudicava il presente alla luce dei principii dell’ordo catholicus di Dante. Come non bastasse, parlava con una specie di esasperazione, che diventava più aspra via via che cresceva in lui la consapevolezza di non esser capito».
Così, «a parte una serata memorabile in cui era conferenziere Augusto Del Noce (da cui nacque la loro amicizia), Quadrelli si alienava le simpatie dei presenti, che non lo conoscevano come nobile poeta e pensatore fine. Dei laici, perché era evidentemente un cristiano; ma anche dei cristiani, perché palesemente non lo si poteva catalogare né a destra né a sinistra […]; inoltre, non era né docente universitario, né un giornalista di grido. Insomma, non gli si riconosceva alcuna autorità. Il dialogo, che egli cercava ostinatamente con quei suoi esasperati interventi, le sue difese del popolo “volgare”, i suoi allarmi, i suoi giudizi sulla DC ad esempio, cadevano in un vuoto tra perplesso e ostile».
Trent’anni fa, nell’aprile del 1984, a quarantacinque anni, Rodolfo Quadrelli «morì in circostanze che fecero pensare al suicidio. Ho sempre sospettato – dice Blondet − che l’avesse ucciso la nostra dappocaggine di “cattolici”. Un poeta può morire d’incomprensione. Ancor più Quadrelli, conscio che “le conseguenze delle parole sono immense”. Con due suoi grandi amici di allora, Emanuele Samek Lodovici e Quirino Principe, poteva rifondare la cultura cattolica; ma i cattolici italiani, almeno i più, non credevano di aver bisogno di pensatori. Non è un caso che due dei tre [Samek Lodovici e appunto Quadrelli] siano morti giovani, e l’altro risulti disperso per la nostra causa».
In un Paese umiliato
Questo secondo Blondet, che fu testimone oculare. Ho ritenuto indispensabile una così lunga citazione, a mano a mano che i decenni passano, a mano a mano che il clima degli anni ’60 e ’70 appare irreale ai contemporanei, per un motivo perfettamente chiaro: perché avvenne allora lo svincolarsi della società occidentale dalla propria dignità umana/culturale/morale. E oggi, chi vive con gli occhi legati tutto il tempo agli smartphone e ai tablet non può accettare di fissare lo sguardo a quei tempi: preferisce fingere di “capire” le epoche storiche dell’impero romano o macedone o immedesimarsi nelle ricostruzioni storiografiche più esotiche, pur di non sentirsi dire dal proprio passato “questo sei tu”.
Parlare di Quadrelli a trent’anni dalla morte è anche ricordare che «l’Italia non è un paese moderno, e non è detto che questo sia una disgrazia. Se non si è moderni, si soffre di più, ma non è detto che la sofferenza non sia segno di superstite salute». Dalle sue parole riceviamo una serie infinita di doni: vedere in un’altra maniera la storia della cultura italiana, percepire l’anelito di un popolo e del suo ruolo possibile nell’ambito dell’Europa, capire quale sia la natura della letteratura in una società avanzata, entusiasmarsi per l’enorme compito morale che aspetta di venire sobbarcato sulle spalle degli uomini integri che si spenderanno per il riscatto civile della nazione.
Leggerne i libri è quindi un gesto di coraggio: da Il paese umiliato (Rusconi, 1973) a Il rombo del motore (Vallecchi, 1974) ai Capitoli morali (Daverio&Calì, 1979) riceviamo idee e giudizi fecondi su temi come: il pregiudizio anti-italiano e l’anticattolicesimo radicale, il bilancio culturale dei danni arrecati dal Risorgimento, il senso dell’ecologismo, le ferite inferte della motorizzazione a città e uomini, gli equivoci della “liberazione della donna” nel Novecento, la dittatura ideologica dell’editoria e dei mass-media (detta «totalitarismo morbido»), la possibilità sempre aperta per chiunque di amare la verità in tempi di frode e di assumersi quindi il ruolo di dissidente. E questo è solo uno scarno elenco del tesoro riposto nei libri di Quadrelli.
Chi andrà a rileggerli? Sono certo che ci proveranno gli eroi, e quanti stanno saldi nella fiducia che il mondo, in senso paolino, e la storia, in senso marxiano, non hanno l’ultima parola sull’io e sulle vicende umane e universali. Molti troveranno la forza e l’umiltà di credere che, come diceva Quadrelli, «il mondo non è una storia inevitabile o irreversibile, e gli errori possono essere espiati o abbandonati, quando si è compreso che essi non sono parte dialettica del progresso dal bene al meglio»: da un lato la tradizione è un giacimento di saggezza a cui attingere, d’altra parte non bisogna «essere parassiti del passato».
Tra l’altro, tale concezione lo pone tra i grandi del pensiero occidentale e rivela la natura dei suoi scritti: quella di chi ama e soffre per gli amici e per la verità, di chi si offre volontario per il bene, cresce figli, educa i giovani, consola e conforta il prossimo, spera saggiamente e sapientemente dispera, quando è opportuno.
Il linguaggio della poesia
Dunque? Bisogna conoscere i libri di Quadrelli. La prima sensazione che si prova facendo ingresso in un suo libro è una specie di estasi; si prenda Il linguaggio della poesia (Vallecchi, 1969) aprendolo a caso: una prosa stupenda, rispettosa delle proporzioni tra comprensibilità e pertinenza assoluta. Secondo Prezzolini, difatti, il suo stile era «eccezionale ». La seconda percezione è data dalla generosità intellettuale: ci permette di capire e di comprendere ciò di cui si sta parlando, anche nei punti concettuali ardui, nel pieno rispetto dell’oggetto. Il discorso di Quadrelli era più chiaro di quello dei critici “ufficiali” e degli esperti e però era anche più profondo (perché l’autore non era un “ideologo”), e di gran lunga più bello; la sua prosa andrebbe insegnata come modello magistrale, se la scuola italiana non fosse lo specchio della confusione mentale di una intera società.
Ma non si può sunteggiare: l’opera omnia di Quadrelli meriterebbe la ristampa in toto, volume unico su carta-india, come un aureo atlante per espiare il passato, essere riconoscenti del presente, dedicarsi all’avvento del bene nel futuro. Per ora, dobbiamo dolerci dell’oblio calato su di lui – che era nato nel 1939 a Milano, dove insegnava nei licei – i cui maestri invisibili furono Dante, Manzoni, Eliot, Simone Weil e Noventa, ai quali con la maturità si erano aggiunti interlocutori muti come lo scapigliato Boito, il russo Solzenicyn, Pasolini e Claudio Magris. Su L’Espresso del 30 gennaio 1972, Umberto Eco lo aveva marchiato grossolanamente come «ultras della sottocultura cattolica» forse per le sue polemiche filosofiche sulla politica della cultura ingaggiate con Fortini e con Cassola. Però, la breve prosa La mia Milano, scritta a quarant’anni, lo pose definitivamente nel novero dei poeti lombardi di sempre.
Al momento della morte lasciò incompiuto un libro che avrebbe trattato della tendenza gnostica della letteratura contemporanea e una raccolta di poesie uscite postume a cura della moglie col titolo di La fine del tempo, dove lo troviamo (secondo Cesare Cavalleri) «in assorto ascolto del palpito segreto delle cose».
Oggi chi volesse rigenerarsi rileggendo Quadrelli può cominciare da Lo studio della letteratura europea (Il Cerchio, 2001) e dal numero monografico dedicatogli da Amedeo Anelli sulla rivista «KAMEN’», n°42, del novembre 2012: i semi di bene ivi presenti germineranno di sicuro, e le gemme daranno nuovo verde, nell’humus dell’anima, che il poeta raccomandava di tenere «chiusa e volerà nell’aria».
Ricorda
«Spesse volte egli [Quadrelli] sa essere profetico, tracciando analisi e giudizi all’apparenza contingenti, ma che riletti a trent’anni di distanza stupiscono per la loro attualità».
(Daniele Gigli, Quadrelli ci spiega perché dovremmo essere più “materialisti”, 10 gennaio 2013, www.ilsussidiario.net).
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