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11.12.2024

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L’antropologia di Giovanni Paolo II
31 Gennaio 2014

L’antropologia di Giovanni Paolo II


 

 

 

Consapevolezza, libertà, responsabilità, autocoscienza e rapporto costituivo con Dio. Alcuni lineamenti essenziali del trattato sull’umano di Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II 

 
 
L’uomo nella sua integralità ha appassionato Giovanni Paolo II nel corso di tutta l’esistenza. Convinto della necessità di rendere ragione sul piano filosofico della concezione dell’uomo proposta dal cristianesimo, sin dagli articoli sul teatro della parola del 1952, ad Amore e responsabilità (opera pubblicata quando già era vescovo di Cracovia), e alla stesura della sua opera filosofica principale Persona e atto del 1969 (maturata durante gli anni del Concilio Vaticano II), Karol Wojtyla si dedica alla composizione di ciò che l’amico e commentatore Tadeusz Styczen considera un unico «trattato sull’uomo».
La sua antropologia nasce dal desiderio di superare tutte le visioni parziali affermatesi nel pensiero moderno. Tali visioni, soffermandosi di volta in volta su singoli aspetti, come il corpo o la ragione o le pulsioni sessuali o la libertà, hanno finito per perdere di vista l’integrum umano, cioè la verità integrale sull’uomo. Per Karol Wojtyla ogni spiegazione nata dall’assolutizzazione di tali aspetti genera un riduzionismo che si lascia sfuggire la totalità umana. Di qui la necessità di elaborare un’antropologia adeguata sia nel contenuto (la totalità dell’uomo), sia nel metodo, che deve fondarsi sulla realtà e quindi sull’esperienza concreta che l’uomo può avere dell’uomo.
Elaborando un’antropologia adeguatas’incontra innanzitutto la necessità di uscire da un orizzonte esclusivamente naturale. L’uomo infatti fa diversi tipi di esperienza: quelle degli eventi che avvengono in lui, ma non dipendono da una sua decisione – come i processi della vita vegetativa (digerire, avere freddo…) e, in misura diversa, della vita emotiva (provare ira quando si subisce un torto, paura di fronte al pericolo, ecc.) – e quella delle azioni di cui è autore, che dipendono dalla sua decisione e a cui dà forma.
L’uomo fa anche esperienza di essere causa delle proprie azioni consapevoli, cioè l’esperienza della scelta. La possibilità di scegliere è un fatto tipicamente umano: la volontà è libera, cioè non è costretta da una necessità fisica a orientarsi verso ciò che la ragione giudica vero e buono. Tuttavia, quando l’intelligenza ha giudicato, nasce il dovere di rispondere alla verità conosciuta compiendola; questo dovere è la responsabilità. La responsabilità è la risposta della coscienza alla presenza della verità. Infatti nella decisione l’uomo può «oltrepassare» (decidere di superare) se stesso per seguire la verità.
Proseguendo nell’autoanalisi, l’uomo coglie la sua capacità di governare i propri impulsi e sentimenti, la sua capacità d’integrazione. Intelligenza e volontà infatti sono la guida dell’uomo, ma non sono tutto l’uomo: esse esercitano la funzione di guida armonizzando impulsi ed emozioni nell’unità della persona. La risposta umana alle pulsioni istintive non sta nella soppressione dell’istinto, e nemmeno nell’azione istintiva immediata che esaudisce la pulsione, ma nell’integrazione, cioè nella risposta all’istinto attraverso modi scelti e organizzati dalla ragione. Emozioni, sentimenti e affetti sono vissuti in modo umano quando vengono integrati nella totalità della persona, non quando sono repressi e negati, né quando diventano guida dell’agire. Il criterio per orientare emozioni e sentimenti alla verità non è considerare la “verità” dell’emozione o del sentimento, cioè la loro spontaneità, ma la verità del loro valore per la persona nella sua totalità.
Conoscenza di sé e coscienza di sé manifestano un’ulteriore dimensione della persona: l’apertura alla realtà e agli altri, cioè la dimensione relazionale. La prima fondamentale relazione che struttura l’uomo è quella col proprio fondamento: riflettendo su di sé, l’uomo comprende che, pur autopossedendosi, egli non è causa di sé e che alla sua origine c’è la relazione con la causa da cui dipende per essere. L’esperienza esistenziale che corrisponde a questa conoscenza è l’esperienza della solitudine e del desiderio di compimento. L’uomo aspetta e desidera il proprio compimento anche quando non sa dare un volto alla realtà che può attuarlo. La relazione tra l’uomo e il suo fondamento è costitutiva, cioè esiste anche quando non è riconosciuta o quando è negata; la pienezza e il compimento della ragione sta perciò nell’apertura della ragione a Dio. Quindi, per Karol Wojtyla un’antropologia adeguata sarà necessariamente sempre anche un’antropologia teologica, cioè un’antropologia che comprenda la verità dell’uomo alla luce della verità su Dio. Fin qui giunge l’antropologia filosofica che, richiamandosi a evidenze di ragione e all’esperienza, dovrebbe risultare accessibile a ogni uomo a prescindere dal suo credo. Tuttavia l’antropologia teologica (nel senso di teologia razionale) di Wojtyla si è sempre confrontata con la rivelazione del mistero dell’uomo che avviene in Gesù Cristo, comprendendo la verità dell’uomo alla luce della verità rivelata sull’uomo come immagine e somiglianza di Dio. La chiave interpretativa fondamentale per comprendere il Magistero di Giovanni Paolo II sull’uomo sta in un testo del Concilio Vaticano II citato in tutte le sue encicliche e, praticamente, in ogni documento di una certa importanza. Si tratta del passaggio di apertura del cap. 22 della Costituzione Pastorale Gaudium et spes: «In realtà solamente nel mistero del Verbo Incarnato trova piena luce il mistero dell’uomo» in quanto «Cristo […] rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela pienamente anche l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (GS, 22).
Carlo Caffarra, sintetizzando il significato di questa centralità dell’uomo per il Papa, ha affermato: «è nella luce del mistero del Dio che si fa uomo perché l’uomo sia deificato, che comprendiamo il pontificato di Giovanni Paolo: il ministero di un Papa affascinato dal Cristo in ragione dell’uomo ed affascinato dall’uomo in ragione di Cristo». In effetti, è proprio vero ciò che Giovanni Paolo II ha detto il 16 ottobre 2003 (25° anniversario dell’elezione): «Sin dall’inizio del pontificato, i miei pensieri, le mie preghiere e le mie azioni sono state animate da un unico desiderio: testimoniare che Cristo, il buon Pastore, è presente ed opera nella sua Chiesa. Egli è in continua ricerca di ogni pecora smarrita, la riconduce all’ovile, ne fascia le ferite; cura la pecora debole e malata e protegge quella forte».
Questa chiave interpretativa del suo servizio pastorale, l’aveva già data fin dall’inizio: «l’uomo è la via della Chiesa», aveva scritto nell’Enciclica programmatica Redemptor hominis. Egli, durante il pontificato, è andato alla ricerca dell’uomo in ogni continente, per prendersi cura dell’uomo. Perché ogni uomo – con tutta la sua inquietudine ed incertezza, con la sua vita e la sua morte – si avvicini a Cristo, entri in Lui con tutto se stesso, assimilando ed appropriandosi di tutta la realtà della redenzione: al fine di ritrovare se stesso. Perché questa è l’unica, vera tragedia dell’uomo: perdere se stesso.
E la vera ragione della perdita era già stata detta dall’arcivescovo di Cracovia in una sua opera poetica: «Ma se c’è in me la verità – deve esplodere / Non posso rifiutarla, rifiuterei me stesso». L’uomo perde se stesso quando rinnega con la sua libertà quella verità di se stesso che ha conosciuto con la sua ragione ed in Cristo.

 
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«Ed eccoci ora al cristianesimo! Il cristianesimo insegna che questo singolo uomo, e quindi ogni singolo uomo, qualunque sia la sua condizione: uomo, donna, ragazza di servizio, ministro, commerciante, studente, ecc. […] esiste davanti a Dio! Questo singolo uomo che forse sarebbe orgoglioso di aver parlato una volta in vita sua col re […] esiste davanti a Dio, può parlare con Dio in qualunque momento, sicuro di essere ascoltato». (Sören Kierkegaaard, La malattia mortale, Sansoni, 1972, p. 666).


 

 
Per saperne di più…

Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, Marietti, 1980. Idem, Persona e atto, Bompiani, 2001.
Idem, Perché l’uomo (a cura di Massimo Ferretti), Ed. Leonardo, 1995.
Graziano Borgonovo, L’antropologia di Giovanni Paolo II, in Studi Cattolici, n. 477, novembre 2000, pp. 740-747.


 
 
 
 

 

IL TIMONE  N. 103 – ANNO XIII – Maggio 2011 – pag. 32 – 33

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