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12.12.2024

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L’arte del vero amore

L’arte del vero amore

 


 

 
Vivere la carità è per ogni uomo la cosa più importante, l’unica che rimarrà in eterno.
 
 

«La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode della ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 4-7). È il famoso inno di Paolo, una delle sue pagine più belle.
Confesso di provare, ogni volta che mi capita di leggerlo, una sorta di brivido che mi corre lungo la schiena. Lo riprendo in mano soprattutto quando mi preparo al sacramento della penitenza e mi sembra – ahimè, cieca! – di aver poco da dire. Mi basta rileggere quelle righe perché la mia coscienza si ridesti e incominci a vedere quale sia il divario tra ciò che ci viene proposto ed i miei limiti.
E forse, non sono la sola.
Credo non sia difficile intuire come questa elevatezza di cuore alla quale siamo invitati, questa purezza interiore che avvicina l’uomo al sentire divino non sia una meta facilmente raggiungibile. Essa contrasta, infatti, con ciò che ci viene spontaneo, con l’esperienza quotidiana che riguarda noi stessi ma anche gli altri con i quali abbiamo a che fare. È inutile nasconderci che siamo spesso e volentieri tentati di fare il contrario, cioè di adirarci, di vendicarci, di pensar male e così via. In una parola, siamo convinti che per essere felici dobbiamo porre noi stessi al centro dell’interesse nostro e degli altri cercando in tutti i modi di ottenere quello che desideriamo.
Nel nostro cuore esistono anche buoni sentimenti, un grande desiderio di amore da dare e da ricevere, tanto che senza di esso ci sentiamo tristi e soli. Eppure, sappiamo per esperienza come esso si accompagni anche a sentimenti assai meno nobili, spinti dai quali noi facciamo del male agli altri ma a nostra volta lo riceviamo. Resta comunque difficile capirci, accettarci a vicenda, aiutarci nonostante spesso le buone intenzioni.
Come sempre, la prospettiva evangelica ribalta l’ottica spontanea, mondana e Paolo, che la riprende, ci dice addirittura che questa spoliazione di sé, questa liberazione dall’egoismo, questo atteggiamento di carità che dobbiamo fare nostro è la via migliore di tutte perché ci porta proprio là dove è la nostra meta. Essa anticipa, infatti, quello che sarà il nostro destino, cioè una vita di amore perfetto con Dio e in Lui con tutti i fratelli.
Per tutto questo la vera carità, così come la fede e la speranza, non è ottenibile con le sole nostre forze. È piuttosto una virtù basilare che ci giunge come un dono. Anzi, come il dono più grande. In questa vita terrena essa è strettamente unita alla fede e alla speranza di cui è il frutto maturo, la realizzazione e l’espressione concreta. Ma, quando la nostra vita si affaccerà all’eternità la prima, e cioè la fede, non servirà più perché finalmente vedremo Dio faccia a faccia; la seconda diventerà anch’essa superflua, perché avremo raggiunto quanto speravamo. La terza invece, e cioè la carità, troverà in quel momento la sua pienezza e sarà «tutto in tutti».
Per questo dobbiamo stare bene attenti a non scambiare la carità evangelica con molti suoi surrogati che vanno di moda. Dice al proposito Escriva de Balaguer: «Il nostro amore non va confuso con il sentimentalismo, neppure con il mero cameratismo, e nemmeno con il desiderio poco chiaro di aiutare gli altri per dimostrare a noi stessi la nostra superiorità. È saper convivere col prossimo, venerare – insisto – l’immagine di Dio insita in ogni uomo, facendo in modo che anche lui la contempli, e così sappia dirigersi a Cristo». Ecco che cosa davvero deve spingerci a cambiare il cuore e ad amare sul serio gli altri: non la simpatia che essi ci ispirano e nemmeno la semplice compassione, non il desiderio di avere in cambio amore e riconoscenza, ma prima di tutto e sopra tutto il fatto che, in Dio, gli altri uomini ci sono fratelli. Che ognuno di loro è “figlio” del Padre, è un uomo per cui Gesù è morto, è tempio dello Spirito. Ed ecco perché la prima e più importante carità è quella della verità, cioè il nostro impegno perché anche ogni nostro fratello conosca Dio e sappia che è Amore.
Ci vorrà molto tempo, molta preghiera e molta grazia perché ciascuno di noi giunga anche solo a capire un po’ che cosa sia davvero la carità. Talvolta ci potranno essere di aiuto alcune sconfitte che potranno accompagnare le nostre intraprese, anche quelle avviate con impegno e buona volontà ma inevitabilmente intrise delle conseguenze del peccato originale. Impareremo così a nostre spese come quello che credevamo amore ne fosse solo una pallida immagine. Poco a poco capiremo gli errori nostri e degli altri passando così lentamente, magari dolorosamente ma, se invochiamo l’aiuto di Dio, inevitabilmente, dall’eros all’agape, cioè dalla passione
che cerca soprattutto il proprio bene all’amore vero che cerca sopra ogni cosa il bene degli altri. E a quel punto faremo una strana scoperta: ci accorgeremo, cioè, che cercando anzitutto il bene degli altri avremo trovato anche il nostro proprio bene. Quel lavoro su noi stessi, fatto giorno dopo giorno, in umiltà e con l’aiuto della grazia, ci permetterà infatti di sperimentare una nuova e prima sconosciuta libertà interiore, ci procurerà un maggiore controllo sulle tante possibili forme di idolatria che insidiano la nostra vita – e, prima di tutto, quella per noi stessi – ci donerà una gioia e una pace mai provati prima, una centratura del nostro essere in Dio, vera fonte di quell’amore che solo attingendo a lui potremo distribuire agli altri.
L’importante però è che non resistiamo alla grazia, allo Spirito che ci vuole «insegnare ogni cosa». Non è facile, anzitutto perché ciascuno di noi, cristiano o no, ha in se stesso il marchio del peccato originale che – ricordiamolo ancora una volta – è quella tentazione di voler fare a meno di Dio, il delirio della autonomia. E, in secondo luogo, perché oggi la nostra cultura esalta in modo particolare questo atteggiamento: «occorre realizzarsi» si dice. Non è giusto sacrificare se stessi, mortificare il proprio io per amore degli altri. Occorre fare molta attenzione: non dobbiamo confondere la vera carità che è rinuncia all’egoismo, con l’esercizio dei talenti che Dio ci ha donato, cioè con un giusto sviluppo del nostro essere. Le due cose non solo non sono in contraddizione, ma anzi si aiutano e si sostengono a vicenda: il cristianesimo esalta il valore di ogni persona umana proprio in quanto creata a immagine di Dio. Ogni essere che davvero viva fino in fondo i doni che gli sono stati fatti, realizzi il proprio carisma, rende in questo modo gloria al Creatore. Ma raggiungerà questa pienezza solo colui che avrà capito davvero il più grande mistero che lo riguarda, avrà, cioè, imparato, per dirla con le parole di papa Ratzinger nel suo discorso inaugurale, «l’arte del vero amore». Solo costui, anche se ignoto ai più, avrà fatto della sua esistenza un vero capolavoro.
 
 
 
 
RICORDA
 
«Che cos’è la carità? La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio al di sopra di tutto e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio. Gesù fa di essa il comandamento nuovo, la pienezza della Legge. Essa è “il vincolo della perfezione”
(Col 3,14) e il fondamento delle altre virtù, che anima, ispira e ordina: senza di essa “io non sono nulla” e “niente mi giova”(1 Cor 13,1-3)».
(Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 388).
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
IL TIMONE – N. 46 – ANNO VII – Settembre/Ottobre 2005 – pag. 56 – 57
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