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12.12.2024

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Lasciate che vengano a Me
31 Gennaio 2014

Lasciate che vengano a Me


 


Gesù ha parlato più volte dei bambini, che sono capaci di “fare esperienza” di Dio. E ha dato anche indicazioni preziose per la loro educazione alla fede.

 

Non sono né mamma, né nonna, né insegnante, dunque, per quel che attiene all’argomento che voglio trattare, posseggo solo la mia esperienza di quando ero bambina. Vorrei tuttavia ugualmente tentare di cimentarmi – pronta ovviamente ad accogliere osservazioni e suggerimenti – sul tema delicato che attiene alla educazione alla fede dei piccoli. Temo infatti che anche questo campo rischi spesso di essere inquinato da quegli eccessi di razionalismo che, per esempio, portano alcuni, anche tra i credenti, ad affermare che poiché i bambini non sono in grado di comprendere più di tanto i contenuti della fede, sarebbe meglio che la loro formazione – e di conseguenza anche l’accesso ai sacramenti – fosse posticipata alla maggiore età. Nel presupposto, peraltro tutto da dimostrare, che giunti a questo traguardo, le scelte diventerebbero più libere e consapevoli.
Ma anche quando non si giunge ad affermazioni così radicali, ho l’impressione che la mentalità corrente, attenta soprattutto alla formazione intellettuale della persona, renda difficile percepire in tutta la sua importanza un fatto che invece è al proposito fondamentale. E cioè che se i bambini non sono in grado di “capire” del tutto chi sia Dio (perché, noi adulti sì?), sono però pienamente in grado di farne esperienza, come dimostrano le biografie di molti santi ma anche, credo e spero, i ricordi che attengono alla nostra stessa infanzia. E che anzi, come vedremo, proprio l’infanzia è, parola di Gesù stesso, in un certo senso l’età d’oro per intuire Dio. Mentre, invece, è proprio con l’adolescenza che prendono sempre più spazio all’interno della persona quel bisogno di conformismo, quell’adeguamento ai pregiudizi della mentalità corrente verso Dio e verso la Chiesa, quel desiderio di libertà senza limiti che rende assai più difficile assumere una visione religiosa della vita.
Il problema di cui ci stiamo occupando è poi complicato dal fatto che mentre nella cristianità da poco disgregatasi molte cose aiutavano, nonostante tutto, a percepire la presenza della fede nel soprannaturale, dal momento che essa era generalizzata e penetrava la vita pubblica oltre a quella privata, ora i bambini ricevono in continuazione messaggi contrari che non li aiutano certo a fare esperienze spirituali. Cosa, questa, che fa ricadere in modo quasi esclusivo sulla Chiesa, ma anche e soprattutto sulla famiglia, l’onere di educare alla fede.
Ma partiamo dagli inizi, da quelle fondamenta al problema che Gesù stesso ha posto. Sappiamo che non si tratta di molte parole. Solo qualche battuta lapidaria che tuttavia tutti e tre i Sinottici riportano, a conferma della loro importanza. Due sono gli episodi che inducono Gesù a parlare dei bambini. Il primo origina da una discussione alquanto bizzarra nata tra gli apostoli in cammino verso Cafarnao e destinata a determinare chi tra loro fosse il più grande. Il Maestro li intende discutere ma non li interrompe. Giunti però a destinazione, vuole loro dimostrare quanto quel loro ragionare sia lontano da ciò che egli va annunciando e per farlo ci riferisce Matteo (18,1- 5 ma anche Mc 9, 33-37 e Lc 9, 46-48): «Chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò, chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli, e chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio accoglie me”». Poi, il solo Matteo a questo episodio aggiunge due annotazioni: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare» (18,6) e «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (18,10). Secondo episodio: Gesù ha lasciato la Galilea e si è avviato verso la Giudea, avendo come meta finale Gerusalemme. In una sosta lungo il cammino, i tanti che lo seguivano, stupiti per i suoi discorsi ma anche per i suoi miracoli, cercano di avvicinargli dei bambini. Ma, dice Matteo (19,13- 15, Mc10,1316, Lc 18,15-17): «I discepoli li sgridavano. Gesù però disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli”. E dopo avere loro imposto le mani, se ne partì».
Ecco, dunque, il quadro completo in cui cercare di muoverci. Gesù non solo non è infastidito dai piccoli che lo circondano, ma anzi chiede espressamente che gli siano portati vicino. E questo, come il contesto ci chiarisce molto bene, non per intrattenersi graziosamente con loro, ma perché possano avere con lui un rapporto assai importante. Egli infatti, «impone loro le mani», compie cioè un gesto preciso che vuole significare la grazia di cui egli è portatore ed anche il suo potere di trasmetterla. E poiché Gesù non fa mai nulla di inutile o di insignificante, questo è anche un segno evidente che il terreno al quale quella grazia è indirizzata, e cioè i bambini, è da lui considerato fertile e capace di riceverla e di portarla a frutto.
Ma c’è di più perché, come abbiamo visto, Gesù ha già in altra occasione precisato come proprio i bambini siano addirittura il modello per eccellenza del giusto rapporto con lui. Loro, spontaneamente, per l’insieme delle caratteristiche proprie della loro età e dell’atteggiamento interiore ad essa collegato. Tutti gli altri, e cioè noi adulti, perché solo se riconquistiamo quel modo di essere del cuore possiamo entrare nel regno dei cieli. Possiamo cioè capire davvero qualcosa di chi sia Dio ed entrare in un rapporto autentico con lui.
Come si vede siamo ben lontani dalle conclusioni, spesso in realtà sconclusionate, di chi si fa paladino di scelte “adulte” e “ragionate”. Certo, nelle cose che riguardano la fede l’itinerario razionale è importante, ma se Gesù ci indica i bambini come modelli, ciò non può stare a significare altro che il cuore conta almeno altrettanto nella scelta e che anzi può essere sufficiente per avvicinarsi a lui e intuirne il senso profondo. E questa propensione verso i piccoli da parte di Gesù è tale che Matteo sente il bisogno di riferirci come il Maestro abbia sottolineato essere ingiusto e pericoloso dal punto di vista spirituale “disprezzare” anche uno solo di essi. Cioè, non tenerli nella dovuta considerazione come possibili interlocutori di Dio mentre invece – e qui il cielo sembra per un attimo squarciarsi – «i loro angeli vedono sempre la faccia del Padre mio». Tanto che piuttosto che “scandalizzare” anche solo uno di loro, sarebbe meglio morire.
Siamo davvero consapevoli di tutto questo quando entriamo in contatto con un bambino? Lo sono davvero gli insegnanti, i catechisti e, soprattutto, i genitori? Ci rendiamo conto della responsabilità grande che ci assumiamo ogni volta che invece che portarli a Gesù perché egli operi in loro, li scandalizziamo in mille modi diversi? Quale devastazione per esempio succede quando in famiglia non solo non testimoniamo amore cristiano ma, al contrario, li facciamo assistere a scambi di liti, di rancori, quando non di odio. Oppure, quando non cerchiamo di favorire in loro una apertura alla dimensione soprannaturale cercando di trasmettere, più che nozioni sulla fede, il giusto atteggiamento del cuore. Quando cerchiamo di introdurli a mille esperienze di apprendimento umano, giuste e necessarie certamente, ma poi magari lesiniamo il tempo e la disponibilità quando si tratta di permettere ai nostri bambini di fare importanti esperienze spirituali.
A cominciare certo da quel catechismo che la Chiesa cerca di offrire. Ma che pure, lo sappiamo, incontra mille difficoltà. Anzitutto, perché ormai non è facile trovare catechisti davvero adeguati e poi perché questi, anche se bravi e impegnati, si trovano di fronte famiglie che spesso fanno avvicinare i propri figli ai sacramenti più per abitudine sociologica che per vera convinzione. E che dunque sono poco collaborative e disponibili e che, soprattutto, non forniscono quell’humus in cui la semina della fede possa davvero attecchire.
Eppure, come abbiamo visto, si tratta di un problema molto serio perché è nell’infanzia che, come per altri aspetti della personalità, può radicarsi più o meno bene anche la dimensione religiosa, possono formarsi quegli atteggiamenti verso il soprannaturale che accompagneranno poi tutto il resto della vita.

IL TIMONE  N. 109 – ANNO XIV – Gennaio 2012 – pag. 56 – 57

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