Si dice che i francesi non riescano a liberarsi dal mito di Napoleone. Il quale, dopo aver scorrazzato per l’Europa e l’Egitto, lasciò loro una Francia più piccola di quando l’aveva presa in carico; per giunta sconfitta, umiliata e invasa da eserciti stranieri. E con qualche milione di francesi in meno. Eppure, guai a chi glielo tocca, lui e i suoi mausolei, tombe, monumenti e souvenir. Ed era per giunta originario della Corsica, isola italica con la quale i francesi non hanno mai avuto un buon rapporto.
Gli italiani, invece, si vergognano ufficialmente di Mussolini, preferendogli nei monumenti Garibaldi. Ma anche loro non riescono a liberarsi, se non del suo mito (figurarsi), almeno della sua ombra. Come ha detto qualcuno: vent’anni di fascismo e sessanta di antifascismo, sono ottanta e passa anni che il Duce in un modo o nell’altro ci condiziona e/o ossessiona. Pagine su pagine sono state scritte su di lui, la sua figura e la sua vicenda sono state vivisezionate e analizzate in ogni modo e per ogni verso. Dai suoi trascorsi alla sua fine, dai suoi primi vagiti ai suoi ultimi cinque secondi, i suoi uomini, le sue donne, la sua politica, la sua guerra, i suoi hobby e le sue manie. Ma, chissà perché, a nessuno era mai venuto in mente di andare a intervistare l’uomo che gli fu vicino per anni e fin quasi alle ultime battute, da Palazzo Venezia a Salò, l’uomo che aveva l’incarico istituzionale di essere «addetto alla sua persona». Cioè, il suo attendente.
Ci ha pensato un giornalista reduce da anni e anni di giornalismo “d’inchiesta”: Luciano Garibaldi. Ne è nato un libro, Vita col Duce. L’attendente di Mussolini, Pietro Carradori, racconta (edizioni Effedieffe, Milano). In appendice vi è riportata una testimonianza di Luigi Confalonieri: «Che cosa accadde davvero quel giorno a piazzale Loreto» Molte le foto, alcune inedite.
Pietro Carradori, poliziotto «a cavallo» e scelto per la prestanza fisica (che ancora oggi sembra conservare, a giudicare dall’imponenza e malgrado l’età), ha molto da dire sui suoi anni accanto al Duce. Ma quel che personalmente ha colpito me sono le pagine dedicate a un Mussolini “religioso” e, a quanto pare, profondamente cattolico. Sì, l’argomento è stato qua e là proposto, soprattutto in articoli giornalistici, ma in questa testimonianza ci sono informazioni dovute non a preti o a sentito dire. «Tutti noi lo udimmo, nel breve discorso di saluto che egli rivolse agli ospiti, dichiararsi “cattolico convinto”». Parola di attendente. Ed era il 1944.
Certo che ne aveva fatta di strada, quello spavaldo ateista militante che insieme a Nenni aveva profanato laidamente un tabernacolo e picconato di propria mano la statua della Madonna del Fuoco, protettrice di Forlì. Ma già nel 1921 lo si sente dire alla Camera: «Penso che l’unica idea universale che oggi esiste a Roma è quella che si irradia dal Vaticano». Due anni dopo fa battezzare i figli. L’anno seguente, a Vicenza, si giustifica con i suoi: «Se sono entrato in chiesa e mi sono inchinato dinanzi all’altare, ciò non ho fatto per rendere un omaggio superficiale alla religione dello Stato, ma per un intimo convincimento».
Ancora un anno, ed ecco lo sposare religiosamente donna Rachele Guidi, a Milano, nella chiesa di Santa Maria Segreta. Poco tempo dopo fa restaurare a proprie spese quella statua della Madonna che ave¬va picconato in gioventù. E lo fa per assolvere all’obbligo della “penitenza” datagli dal confessore. Il Carradori diventa vicebrigadiere per aver salvato la vita a Mussolini durante un mitragliamento aereo. Ma testimonia che anche il Duce, «senza che nessuno ne sapesse, né in seguito ne abbia saputo nulla, salvò la vita a centinaia di giovani. Lo fece tramutando, con due righe scritte a matita, centinaia di condanne a morte in altrettante pene detentive. Di uno di quegli episodi fui testimone oculare». Si trattava di sedici partigiani, graziati il giorno di Natale del ’44.
Si dirà che erano italiani, ed è nota l’idiosincrasia di Mussolini per quella guerra civile nella quale si era trovato impaniato uno che era partito col voler fare grande l’Italia. Ma è probabile che la causa profonda sia da ricercarsi (anche) in quel suo «intimo convincimento» che era andato maturando, a quanto pare, negli anni. Infatti, se seguiamo la testimonianza dell’attendente, vediamo che le richieste di grazia erano immancabilmente esaudite quando provenivano dall’arcivescovo di Milano, il recentemente beatificato cardinale IIdefonso Schuster. «Ne arrivavano almeno una o due alla settimana. Ero autorizzato ad aprirle e a leggerle. Contenevano sempre richieste di clemenza per partigiani arrestati da tedeschi o da italiani. E regolarmente il Duce accoglieva le sollecitazioni dell’arcivescovo di Milano».
Negli anni ’41 e ’42, quando a Palazzo Venezia giungeva qualche cardinale in visita, il Duce lo accoglieva sulla porta dello studio, privilegio riservato solo al principe Umberto. E si piegava al bacio della mano. Per giunta, ecco una figura misteriosa: «Veniva spesso anche un monsignore, di cui non ricordo il nome, che tutti chiamavamo “il cappellano” e che disponeva di una piccola cappella a pian terreno dove dire Messa per il personale osservante». Tale «cappellano» si intratteneva, spesso e a lungo, nell’ufficio del Duce. Non solo.
La Domenica delle Palme inviava a Mussolini una palma benedetta che l’attendente aveva ordine di mettere in un vaso dietro la scrivania. Ma molti altri erano i preti che venivano ricevuti («La consegna era di non disturbare per nessuna ragione»); tra essi spiccava il padre Tacchi Venturi. Conclude Carradori: «L’impressione mia di devoto collaboratore del Duce era che effettivamente egli si fosse molto avvicinato alla fede, specialmente negli ultimi mesi della guerra». Quando l’unica speranza erano le preghiere. E un miracolo che non venne.
IL TIMONE – N. 34 – ANNO VI – Giugno 2004 – pag. 20 – 21