Né ecologista né pauperista. Francesco contempla nel Creato la gloria di Dio. L’uomo è signore della natura e usa e si ciba legittimamente degli animali. Per il santo di Assisi la povertà è fuga dal mondo e dal peccato, ma anche scelta libera che rispetta la proprietà privata
Il primo ecologista? Facile: Francesco d’Assisi. Complice il lavorio di migliaia di insegnanti della scuola, statale e privata, dei mass media, di parrocchie e oratori politicamente corretti, l’idea che San Francesco sia il padre nobile del pensiero ambientalista è diventato un dogma invincibile del nostro tempo. Peccato che sia completamente falso. Come falsa è la notizia che il santo fosse un vegetariano. Francesco non fu nemmeno un animalista. Né, tanto meno, un naturista che rifiutava la civiltà, compresi i vestiti. Francesco pauperista? Falso anche questo. Nel libro San Francesco antimoderno (Fede & Cultura, 2009), Guido Vignelli – apologeta tra le firme del Timone – ha svolto un ottimo lavoro di «demitizzazione» del santo di Assisi, con il dichiarato scopo di «difendere il Serafico dalle falsificazioni progressiste». Attingiamo molti spunti e informazioni proprio da questa fonte.
La natura
Non c’è dubbio che la sensibilità straordinaria per il Creato di Giovanni di Pietro da Bernardone (questo il vero nome del santo) lo espone all’equivoco e al fraintendimento, soprattutto da parte di un mondo confuso e superficiale come quello in cui viviamo.
In verità, il problema si era posto già in tempi passati. Nel 1926, in occasione dell’VIII centenario della morte di san Francesco, Pio XI diede alle stampe l’enciclica Rite expiatis, nella quale fra l’altro scrive: «Essendo Araldo del Gran Re, Francesco volle che gli uomini si conformassero alla santità evangelica e all’amore della Croce, non già che si trasformassero in sdolcinati amanti di fiori, uccelli, agnelli, pesci e lepri. Se egli mostrava una certa affettuosa tenerezza verso le creature (…) non era mosso da altra causa che dall’amore per quel Dio che è comune origine, e in esse contemplava la divina bontà». Anche G.K. Chesterton aveva ben compreso questo equivoco ideologico che incombeva sulla interpretazione del santo di Assisi. «San Francesco», scrive Chesterton nel suo libro dedicato al santo, «non era un amante della natura (…). Tale qualifica implica infatti che si concepisca l’universo materiale come qualche cosa che vagamente ci circonda, una sorta di panteismo sentimentale. (…) Ma come ogni mistico san Francesco era nemico mortale di tutti coloro che cancellano i limiti delle cose, dissolvendo ogni entità nell’ambiente che la circonda; egli fu esattamente l’opposto di quella sorta di visionario orientale che è mistico solo perché è troppo scettico per essere materialista». In questo senso, si comprende meglio che il meraviglioso Cantico delle Creature – prima grande opera in quel volgare che fece nascere la lingua italiana, la lingua di Dante e di Petrarca, di Leopardi e di Manzoni – non vuole certo idolatrare la natura, ma ribadire la bontà del creato di fronte alle terribili idee catare e albigesi, che invece predicano una malvagità intrinseca del mondo.
Uno dei più grandi mistici del ventesimo secolo, Don Divo Barsotti, spazza via ogni presunta commistione fra san Francesco e l’animalismo. Per il santo di Assisi non c’è paragone fra l’uomo e le bestie, tanto è vero che nella sua visione del mondo, scrive Barsotti, «l’uomo è veramente il re del Creato; le creature sono poste al servizio dell’uomo (…) è il peccato dell’uomo che ha diviso e opposto Dio e la creazione; ma chi vive in Dio ritrova la creazione; in Dio egli diviene Signore del mondo. (…) La benedizione francescana è una benedizione che ridà all’uomo la sua innocenza primitiva, lo fa veramente re di tutto il creato». Una pagina stupenda, nella quale si può apprezzare la distanza siderale che separa Francesco e il suo saldo cattolicesimo da ogni forma di ecologismo animalista, mirante a mettere l’uomo – quando va bene – sullo stesso piano degli animali. Una concezione che aborrisce l’idea di signoria dell’uomo sul creato, che invece Francesco ben conosce e ben interpreta per tutta la vita.
Gli animali
Proprio dall’esistenza breve e intensissima del poverello si può cogliere questa limpida visione dell’uomo, creatura di Dio. Quando, ad esempio, Francesco dimostra tenerezza nei confronti di un agnello, egli spiega – come ci riferisce san Bonaventura da Bagnoregio nella Legenda maior – che l’animale gli ricorda «l’Agnello mitissimo che volle essere ucciso per redimere i peccatori». Dunque, Francesco non si diede mai da fare per salvare gli agnelli dalla macellazione per festeggiare la Pasqua, né avrebbe approvato le manifestazioni isteriche di certo animalismo aggressivo. Anzi: pare che a Francesco la carne piacesse parecchio. Fra’ Ginepro racconta che Francesco volle ristorare un frate malato con carne di maiale, giacché «i porci sono stati creati ad uso dell’uomo». Nella Prima Regola il santo di Assisi raccomanda che i frati si cibino della carne ricevuta in elemosina. E quando giungeva il Natale, Francesco voleva che si facesse festa mangiando un intero pasto a base di carne perché «quando è Natale non vi sono astinenze che tengano. E se i muri potessero mangiare carne, bisognerebbe darla in pasto anche a loro». Tant’è vero che Francesco non manca di usare espressioni ruvide nei confronti degli animali. Egli ritiene pacifico che le bestie sono state create per faticare a vantaggio dell’uomo. Nella Compilatio perusina il santo vuole esortare il cristiano a dominare il «frate corpo», e suggerisce di maltrattarlo e bastonarlo «come si fa con un bue pigro e recalcitrante, che pretendesse di mangiare senza guadagnarselo portando pesi». Secondo Francesco d’Assisi, gli uomini perversi o mondani erano da considerare animales homines, letteralmente «uomini bestiali».
L’uomo e il progresso
Su un punto, bisogna ammetterlo e anzi ricordarlo con forza, san Francesco si pone in contrasto all’azione dell’uomo di fronte al Creato: il santo delle stigmate condanna l’idea – tipicamente moderna e rinascimentale – secondo la quale la natura sarebbe uno sterminato campo di esercizio della prometeica volontà di potenza da parte della civiltà umana. Se ci si pensa bene, la stragrande maggioranza dei problemi ambientali – veri e non frutto di paturnie ideologiche – è stata prodotta negli ultimi secoli, proprio a partire della svolta antropocentrica alimentata dal razionalismo cartesiano e dallo scientismo galileiano. Come la rivoluzione francese si abbatte contro l’idea aristotelico tomistica della natura in senso filosofico, così la rivoluzione industriale si abbatte sulla natura nella sua dimensione biologica. Uno dei più grandi scrittori del novecento, J.R.R. Tolkien, rappresenterà in maniera simbolica questa violenza della civiltà sulla natura, in particolare nello scontro fra gli Ent e la furia devastatrice di Saruman, come si legge ne Il Signore degli anelli. Francesco d’Assisi, che pure viveva in pieno medioevo, ricorda all’uomo che la creazione è stata fatta con infinita saggezza da Dio, e che l’uomo non può farne letteralmente ciò che vuole, ma è obbligato a usarla bene e per il bene.
La povertà, mezzo per la santità
L’altra grande menzogna intorno alla figura di Francesco riguarda la povertà. Che egli visse da povero, facendosi povero in piena libertà e rinunciando ai beni cui aveva diritto come figlio di un mercante di Assisi, è certamente vero. Ma che egli fosse un pauperista, un rivoluzionario, un nemico della proprietà privata, il propugnatore di un odio classista verso i beni di questo mondo… beh, tutto questo è pura fantasia.
Come scrive Vignelli, «il vero significato e valore del francescanesimo consisteva nel testimoniare la possibilità di una vita radicalmente evangelica, rinunciando a tutto e godendo della beatitudine promessa a quei poveri che la Bibbia chiama anawìm». Termine che indica i poveri per scelta, cioè umili che decidono di affidarsi totalmente alla Provvidenza. Il problema non è costituito tanto dalle ricchezze terrene, ma dalla capacità del cristiano di rinunciare al mondo, cioè ai piaceri, agli onori, alle sicurezze, ai diritti e alle pretese. Dunque la povertà è per Francesco non un fine, ma un mezzo per vivere da vero cristiano, totalmente dentro la Chiesa. E senza aver mai preteso che tutti seguissero pedissequamente il suo cammino. Del resto, la povertà radicale non è, di per sé stessa, un’invenzione di Francesco: nel XII secolo erano già sorti movimenti come i Valdesi, gli Umiliati, i Poveri di Cristo, che si proponevano di vivere in rigorosa povertà. Fra costoro non mancò chi istigò i poveri alla rivolta, cosa che Francesco non fece mai. Quando il santo scrive «ai governanti dei popoli» non li esorta a farsi poveri o ad abbandonare l’esercizio del potere, ma intima con geniale sintesi: «Quanto onore viene conferito a voi dal popolo, tanto ne dovete conferire voi al Signore ». Minacciando che «se non farete questo, sappiate che dovrete renderne conto al Signore Vostro Dio Gesù Cristo, nel giorno del giudizio ».
Povero ma nobile
Per Francesco, il punto fondamentale non fu mai quello di abbandonare per forza il mondo, ma di liberarsi dai vincoli tentacolari del mondo, che portano l’uomo alla schiavitù del peccato. Francesco non fu mai un pezzente, né volle fare l’elogio della miseria. Le cronache raccontano che egli aveva maniere nobili e signorili, tanto che pur essendo borghese lo scambiarono spesso per aristocratico. E quando volle spogliarsi di tutto e vestire il saio, portò con se la courtoisie, le belle maniere di corte.
Francesco raccomandava nella Regola ai suoi frati di evitare «di guardare con occhio impuro e di frequentare donne, e con loro nessuno parli da solo, né viaggi né mangi a mensa». Ma lo stesso Francesco intimava ai fraticelli di non guardare con disprezzo quelli che «vivono nel lusso e vestono con esagerato fasto e ricchezza». Francesco voleva offrire al mondo un esempio di povertà, senza imporre la povertà come regola sociale. Tanto meno il santo volle mettere in discussione la proprietà privata: secondo quanto riferito da Tommaso da Celano, Francesco stabilì che «non è lecito impossessarsi della roba altrui o distribuire ai bisognosi la proprietà degli altri». Insomma: il poverello non avrebbe oggi nulla a che spartire con la cosiddetta «Teologia della liberazione».
Se infine spostiamo lo sguardo sulla presunta povertà francescana nella liturgia e in generale nei segni simbolici e formali, la distanza con il vero San Francesco diventa davvero abissale. «Vi prego», scrive il santo, «più che se riguardasse me stesso, che, quando vi sembrerà conveniente e utile, supplichiate umilmente i chierici che debbano venerare sopra ogni cosa il santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo. (…) I calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, debbano averli di materia preziosa. (…) E se in qualche luogo il santissimo Corpo del Signore fosse collocato in modo troppo miserevole, secondo il comando della Chiesa venga da loro posto e custodito in un luogo prezioso, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione».
Dunque, al poverello non sarebbero andati a genio calici in legno, casule o pianete brutte, chiese e altari spogli, senza la ricchezza dovuta al Re dei Re.
IL TIMONE N. 124 – ANNO XV – Giugno 2013 – pag. 39 – 41
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