Nella prassi delle nostre parrocchie, chi si occupa del servizio musicale, pur quando rispettoso di certi “canoni” liturgici, ha un momento di esaltante libertà nel c.d. canto finale.
Anche i più scrupolosi, infatti, si sentono autorizzati in quel punto della Messa a comportarsi più a briglia sciolta: si passa dall’organista serio che si diverte un po’ con Provesi o qualche trascrizione di Wagner, fino alla canzone di Vasco Rossi all’uscita del feretro nel funerale di qualche povero giovane morto tragicamente, passando attraverso sviamenti più “raffinati” come quello ascoltato durante le mie ultime vacanze quando, in una fedelissima città del Nord-est, al termine di una celebrazione nella festa di Maria Regina, si è cantato il “Regina Caeli”.
Un tempo il canto finale, o per la “Recessione”, era un punto fermo e solitamente non creava imbarazzi né ai musicisti nella scelta, né ai fedeli nel sentirsi propinare canti impropri, e in più contribuiva a dare una nota ulteriore di cattolicità alla celebrazione (cosa che non guasta, soprattutto oggigiorno): in tutto l’anno liturgico, infatti, a fine Messa si usavano le Antifone mariane (dette anche maggiori).
Qualcuno le ricorderà: Alma Redemptoris Mater, Ave Regina coelorum, Regina coeli e Salve Regina.
Si sapeva con certezza “dottrinale” che la prima si impiegava dall’Avvento fino alla Purificazione, la seconda serviva fino al Sabato Santo, la terza era peculiare del tempo di Pasqua e l’ultima si cantava dalla Ss.ma Trinità in avanti (il c.d. tempo ordinario).
Nulla vieta di eseguirle anche oggi. Anzi!
Scolorite dall’ingiusto oblio in cui sono cadute (soprattutto le prime due), a volte è sufficiente rimetterle in esercizio per poco tempo: i fedeli anziani le ricordano ancora e i giovani possono impararle presto. Si tratta infatti di forme antifonali semplici, prive di salmo: in pratica di preghiere alla Vergine – in un latino facilissimo – messe in canto e inoltre quelle consacrate dall’uso comune, nella forma semplice (esistono le versioni nel c.d. tono solenne), sono state per secoli dei veri cavalli di battaglia del nostro popolo. Dico secoli, ma ormai potrei dire “un millennio” e anche più, perché queste quattro piccole perle di sapienza liturgico-musicale ci giungono dai recessi più affascinanti del Medioevo cristiano.
L’antifona per l’Avvento e il tempo di Natale, “Alma Redemptoris”, è attribuita al beato Ermanno di Reichenau (Ermanno il contratto) ovvero uno dei più grandi scrittori di melodie e musicisti del Medioevo, vissuto subito dopo il Mille e, probabilmente, autore anche della “Salve Regina”. Alcuni propendono per assegnare a san Bernardo la paternità di quest’ultima antifona, ma – come si può vedere – è comunque un campionario di tutto rispetto!
Una certa tradizione vuole, invece, risalente addirittura allo stesso san Gregorio Magno il “Regina coeli” che si canta da Pasqua a Pentecoste e, dai tempi di Benedetto XIV, sostituisce anche l’Angelus nello stesso periodo, mentre “Ave Regina coelorum”, di composizione più tarda, resta l’antifona della Quaresima, ma in verità essa copre il periodo dell’anno liturgico che segue la festa della Candelora, ovvero dalla Settuagesima sino a Pasqua.
Ognuna di esse medita una particolare “caratteristica” mariana, connessa strettamente con il periodo liturgico, pertanto è bene evitare di spostarle dalla collocazione che la tradizione ha loro assegnato: in Avvento si invoca Maria che partorisce il Santo Genitore («Figlia del tuo Figlio»), mentre dopo la Purificazione si saluta la Vergine quale «porta attraverso cui la Luce è sorta nel mondo», poi con la Resurrezione si invita la Madonna, Regina del cielo, a rallegrarsi perché il divin Figlio «è risorto, come aveva detto!» ed infine con la “Salve Regina” le si chiede aiuto ed intercessione misericordiosa.
Reintrodurre stabilmente questi quattro brevi brani in canto gregoriano a servizio della liturgia, come si può vedere, è opera meritoria, ma in questi auspici ci sono illustri precedenti. Solo per citarne uno fra i tanti: mons. Elia Dalla Costa, indimenticato arcivescovo a Firenze, quando era vescovo a Padova negli anni Trenta, nelle sue lettere pastorali invitava preti e musicisti a deporre canti melensi e insignificanti per far luogo alle antifone gregoriane, considerate di sicura aderenza liturgica.
La storia si ripete, ma con due differenze. La prima è che i canti da bandire oggi non sono solo insignificanti, ma a volte proprio perniciosi.
La seconda è che i vescovi si occupano di meno di queste cose. Molto meno.
IL TIMONE N. 117 – ANNO XIV – Novembre 2012 – pag. 47
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