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13.12.2024

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Le ferrovie di Pio IX
31 Gennaio 2014

Le ferrovie di Pio IX

 

 

 

 
Può sembrare un argomento marginale, un aneddoto per appassionati di storia. Invece, non lo è. Penso, cioè, alle tre righe che tutti abbiamo trovato sui libri di scuola: i quali quasi sempre, come si sa, si copiano nei contenuti e altrettanto quasi sempre si allineano al pensiero egemone del momento. Ricordo bene quando al liceo trovai la frase che mi incuriosì e che mi confermò nella diffidenza e nella lontananza dalla Chiesa: "L'oscurantismo del cattolicesimo della Restaurazione post-napoleonica si spinse sino a vietare la costruzione, nello Stato Pontificio, di ferrovie,
considerate un'invenzione diabolica». E questo bastò a me, e chissà a quanti altri, per considerare il cattolicesimo come uno stolto oltre che pericoloso avversario del "Progresso". Insomma, non è un tema minore, vale la pena di occuparsene.
Poiché, tra l'altro, mi piacciono i treni (ne ho parlato, qualche volta), il loro bando "teologico" dal regno pontificio mi intrigava in modo particolare. Rinviavo sempre, però, l'attuazione del proposito di capire come stessero davvero le cose. Fino a quando, di recente, un'editrice specializzata ha pubblicato il grosso volume di un appassionato dal titolo per me irresistibile: Le ferrovie di Pio IX.
Vediamo, allora, come andò davvero. Cominciando con una cifra precisa: 260. Questo era il numero di chilometri di strade ferrate in tutta Italia nel 1846, quando Pio IX ascese al pontificato. Un'inezia, dunque: come il percorso tra Torino e Brescia, non dimenticando che erano tra l'altro linee a binario unico. Si trattava, comunque, di brevi tronchi non collegati tra loro e spesso costruiti come una sorta di giocattolo del Principe. Così le due prime linee, la Napoli-Portici che permetteva alla corte dei Borboni di raggiungere comodamente e rapidamente il palazzo reale; o come la Milano-Monza, voluta dai vicerè austriaci per raggiungere la reggia brianzola dove vivevano, pur avendo "l'ufficio" in città. In quel 1846, oltre al Lombardo Veneto e alle Due Sicilie, solo il Granducato di Toscana aveva anch'esso un pezzetto di ferrovia. Non ne aveva alcuno – guarda un po'! – quel Regno di Sardegna che ci presenteranno poi come l'avanguardia del progresso in Italia: solo alla fine del 1848 si inaugurò un tronco di pochissimi chilometri, quello tra Torino e Moncalieri (sede, anch'essa, di una reggia dei Savoia) che è un comune confinante con la Capitale e per raggiungere il quale bastavano pochi minuti di diligenza. Soltanto sei anni dopo, nel 1854, Torino sarà collegata a Genova.
Date e cifre precise rivelano dunque che il ritardo dello Stato Pontificio non era così abissale come vogliono farei credere. In ogni caso, il desiderio di Pio IX non solo di recuperare ma di porsi addirittura all'avanguardia tra gli Stati italiani è mostrato dal fatto che soltanto un mese dopo il Conclave nominava una "Commissione per le Strade Ferrate dello Stato di Sua Santità". Che facesse sul serio e non per celia lo dimostra il fatto che la "Commissione" tre mesi dopo pubblicava una Notificazione che è ben nota agli appassionati di cose ferroviarie. Si trattava di un bando di gara per assegnare alle Compagnie private in grado di farlo i lavori per ben mille chilometri di strade ferrate. Quattro volte, dunque, l'estensione a quel momento dell'intera rete della Penisola! Partendo da Roma, quattro linee avrebbero collegato la città alle altre zone d'Italia e all'Europa. Il fervore "ferroviario" nell'Urbe era tale, grazie al dinamismo dell'ancor giovane Papa, che Roma ebbe, dal 1847, un settimanale apposito, La Locomotiva, redatto da tecnici e ingegneri e da sempre ricercatissimo dai collezionisti.
Se gli eventi, poi, non furono pari alle aspettative e occorse aspettare il luglio del 1856 per la prima linea, la Roma-Frascati, non lo si deve di certo alle autorità pontificie. Innanzi tutto, al bando del governo per la concessione delle opere non poté rispondere il capitale locale, troppo debole, concentrato ancora sulla rendita fondiaria e non abituato a correre i rischi di un'impresa industriale. I soli, veri capitalisti, i principi romani, non erano certo inclini a questo tipo di investimento. Ci si rivolse dunque all'estero, ma le Compagnie che si fecero avanti non risposero ai requisiti tecnici richiesti. Anche perchè era difficile pensare a un adeguato ritorno economico costruendo ferrovie in zone dove l'industria era assente, l'economia povera, il traffico scarso. Inoltre non si trattava di stendere binari in pianure come quelle francesi o tedesche o magari padane ma di farsi largo, a suon di gallerie e viadotti spericolati, tra montagne friabili e tormentate come gli Appennini e di tenere per anni migliaia di operai tra le febbri delle Paludi Pontine. Non dimentichiamo, poi, che gli abitanti sotto l'autorità pontificia erano poco più di tre milioni e un terzo di questi era costituito da contadini poveri. C'era poi il problema delle frontiere e delle linee doganali che spezzettavano l'Italia, così che il tempo che si sarebbe guadagnato grazie al vapore lo si sarebbe perso nel controllo dei passaporti e nelle pratiche doganali. Mentre Pio IX e i suoi collaboratori cercavano di risolvere gli enormi problemi, scoppiò la guerra tra Piemonte ed Austria, con l'invio, in un primo tempo, anche di contingenti pontifici. Poi venne la rivoluzione, venne la repubblica mazziniana, venne la fuga del Papa a Gaeta, ospite del re di Napoli.
Al ritorno, nel 1850, il Pontefice trovò non solo una parte dei suoi territori devastata ma anche la bancarotta economica. Le rivoluzioni, come si sa, costano, visto che i rivoluzionari non si occupano di cose mediocri e prosaiche come i bilanci in ordine. La demagogia impone di concedere tutto a tutti, lasciando i debiti a chi verrà dopo. Così avvenne puntualmente anche con il triumvirato di Mazzini, Saffi, Armellini. I "progressisti" che hanno sempre tuonato contro il "malgoverno pontificio" si guardano bene dal ricordare che, in pochi mesi, la cosiddetta Repubblica Romana raddoppiò il debito pubblico, portò l'inflazione al 50 per cento e fece sparire l'oro e l'argento, imponendo il corso forzoso della carta moneta che nessuno voleva. Insomma, la stessa storia degli "assegnati" della Rivoluzione Francese. Da allora, un terzo del bilancio pontificio se ne andò ogni anno per pagare gli interessi sui debiti fatti in tutta Europa ma soprattutto con la banca degli ebrei Rotschild che, oltre a buoni rimborsi, cercavano anche di avere influenza sulle scelte del buon Pio IX. Eppure, nel 1859, quando il Piemonte iniziò un'altra guerra che lo portò all'occupazione illegale della parte settentrionale, la più ricca, dei Domini pontifici, nel 1859, dunque, il cardinal Giacomo Antonelli poteva annunciare che era stato raggiunto il pareggio di bilancio. Un risultato brillante per il quale, puntualmente, non si trova alcuna citazione nei libri di storia. Un risultato, per giunta, cui si giunse nonostante fosse finalmente in svolgimento, da qualche anno e grazie ai sussidi statali, il piano per i mille chilometri di strade ferrate.
Insomma, quando il regno d'Italia si avvicinò alla Roma papale per mettere fine al più antico tra gli Stati italiani, non solo non trovò il deserto ma linee già funzionanti e cantieri in attività. Così le truppe che entreranno poi da Porta Pia erano state trasportate sui binari e sui vagoni dell'irriso, oscurantista Papa-Re.
Quanto a Gregorio XVI, il predecessore di Pio IX, al secolo Bartolomeo Alberto Cappellari e papa tra il 1831 e il 1846, sono ovviamente inventate le storie di scomuniche contro le ferrovie e chi le usava. Quel pontefice aveva una vocazione contemplativa, aveva scelto volontariamente di farsi camaldolese, dunque benedettino di clausura. Aveva 30 anni quando i giacobini del giovane Bonaparte giunsero a Roma e combinarono quanto sappiamo. Dovette assistere impotente alla
parabola violenta del potere napoleonico. Il giorno dopo la sua elezione, nel febbraio del 1831, scoppiava a Bologna un’insurrezione che avrebbe poi coinvolto vaste parti dello Stato, tanto che occorse l’intervento dell’Austria per riportare l’ordine. Tutto, insomma, lo portava a diffidare del "mondo nuovo", del quale le ferrovie erano addirittura un simbolo. Tra l'altro, non era certo il solo a temere la pericolosità, anche fisica, di quel mezzo rivoluzionario: pure buona parte della stampa laica metteva in guardia contro i rischi che si correvano ad affidarsi al vapore. Non si dimentichi che la prima corsa pubblica della storia, nell'Inghilterra del 1830, fu funestata da un incidente mortale. Non viene da ambienti romani né cattolici bensì dallo sgomento istintivo del popolo francese il detto divenuto famoso: chemin de fer, chemin d'enfer.
Non era dunque sorprendente che alcuni confessori ammonissero i penitenti, ricordando loro che la tutela non solo dell'altrui ma anche della propria vita è un grave dovere per i cristiani. Ma se Gregorio XVI decise di non costruire ferrovie, fu soprattutto perchè così gli suggerivano i suoi consiglieri che gli dimostravano, a suon di cifre e grafici, che l'economia romana non era in grado di gestire trasporti tanto costosi, che esigevano un rientro impensabile. Come dovette sperimentare poi Pio IX, che si scontrò con il rifiuto degli uomini d'affari di investire i loro capitali.
Si temeva, inoltre, l'invasione di merci straniere con le quali il mercato locale non era in grado di affrontare la concorrenza. Problemi concreti, di politica economica, insomma, non questioni teologiche né chiusure aprioristiche a un progresso al quale, lo abbiamo visto, aderì subito e con entusiasmo papa Mastai Ferretti. Il quale non trovò neppure un chilometro di ferrovia: ma alla pari, lo osservavamo, del re piemontese e di tanti altri sovrani dell'Europa del tempo. Eppure, per essi, nessuno ha parlato, come per lui, di "oscurantismo medievale".

Stalin: Israele "amico", anzi no

Sempre a proposito di mistificazioni storiche. Tra le cose su cui non ho mai preso né mai prenderò posizione, c'è la questione dello Stato di Israele e della sua lotta mortale con i Palestinesi e, in genere, con il mondo musulmano. Osservo, inquieto, senza permettermi giudizi: credo, infatti, che, in una prospettiva di fede, quegli eventi, più che alla storia, appartengano alla meta-storia, entrino nell'enigma profetico, sfuggano e sempre sfuggiranno alle povere risorse della politica e della diplomazia. Attorno alla disputa sanguinosa per la Terra che è santa per le tre religioni abramitiche c'è un'aura apocalittica, nel senso biblico. Come esibirsi, allora, in un risibile "secondo me"?
Precisata l'astensione dal giudizio, è però possibile un'osservazione che – almeno questa – deriva da una storia che chiunque può ricostruire. È ben noto, cioè, come la sinistra, soprattutto comunista, sia stata e sia tuttora avversa al "sionismo" e solidale con la resistenza palestinese. Ancora nel corteo del Primo Maggio, a Milano, i gruppi che si ostinano a riconoscersi in un qualche marxismo hanno dato alle fiamme bandiere di Israele.
Sono certo che quei giovanotti ignoravano che, senza la Russia di Stalin, quasi certamente il sogno sionista non avrebbe potuto realizzarsi. Nei dibattiti del 1947 alle Nazioni Unite, l'Urss approvò ed appoggiò con ogni mezzo quel piano di spartizione della Palestina che i "progressisti" denunceranno poi, sino ad oggi, come criminale, come la rapina di una terra a un popolo. I sovietici, infatti, vedevano nella nascita dello Stato di Israele un colpo all'imperialismo capitalista britannico inferto dagli ebrei comunisti russi e polacchi. L'opposizione araba era letta dalla propaganda di Mosca come la scomposta risposta dei sovrani feudali e reazionari del Medio Oriente contro l'ascesa di un regime progressista. La guerra di sopravvivenza combattuta dagli ebrei nel 1948 di certo non sarebbe stata vinta senza l'appoggio diplomatico russo e le armi fornite, spesso gratuitamente, attraverso la Cecoslovacchia. Nel maggio di quell'anno fatale, l'Urss fu la prima nel mondo a riconoscere la nuova Repubblica di Israele della quale contava di fare un avamposto in Oriente e dal quale si aspettava la concessione di basi militari. A Mosca fu creato un ente governativo per inviare masse di ebrei russi, precedentemente indottrinati e, spesso, arruolati dal KGB.
Quel voltafaccia che durerà sino ad oggi, contrassegnando le sinistre anche dopo la fine sovietica, avvenne già nel 1950. Due, stando agli storici, le ragioni: innanzitutto l'allarme di Stalin, che cominciò a temere che tra gli ebrei, anche quelli restati in Russia, la fedeltà per Israele prevalesse su quella per l'Urss.
Poi, il fatto che – per ragioni economiche, storiche, culturali – il nuovo Stato cominciò a gravitare verso l'Occidente e, soprattutto, verso gli Stati Uniti. Qui, infatti, risiedeva la più grande e più ricca comunità della Diaspora: la Russia poteva dare uomini ma l'America dollari in abbondanza. Per dirla con uno storico dell'ex-Unione Sovietica, "sin dai primissimi anni Cinquanta, il sionismo divenne, nell'interpretazione ufficiale, una pedina del gigantesco complotto imperialista per sovvertire i Paesi del socialismo mediante la manipolazione dei loro cittadini ebrei". Questo, tra l'altro, "fece riemergere in Stalin quel suo antisemitismo che non era mai stato troppo nascosto». E cominciò una caccia all'ebreo più ipocrita ma spesso non meno crudele di quella nazista.
Lo sappiano, comunque, una buona volta quelli che da sinistra inveiscono contro i sionisti e solidarizzano con i palestinesi: quale che sia il giudizio, la loro terra avrebbe avuto un destino ben diverso senza l'intervento di chi diceva di richiamarsi ai Sacri Testi del progressismo.

 

 

 

IL TIMONE – N. 54 – ANNO VIII – Giugno 2006 – pag. 64 – 66

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