Con l’uccisione di Cristo e le persecuzioni agli apostoli, Gerusalemme va incontro alla sua rovina. La città aveva già perso, con Erode, la sua dinastia sacra, rompendo quella millenaria discendenza regale che la legava a Dio, e dando fine anche alla legittima successione dei sommi sacerdoti (cfr il Timone n. 99). Ora, rifiutando la luce della nuova alleanza, la popolazione perdeva ogni punto di riferimento esistenziale, iniziando così un drammatico periodo di tenebra e di disgrazia.
Eusebio, storico e vescovo di Cesarea, così scrive: «Al tempo dell’imperatore Claudio, nel giorno della festa di Pasqua, a Gerusalemme scoppiò una rivolta ed un disordine tale che, dei soli Giudei che si accalcarono impetuosamente alle porte del Tempio, tremila morirono travolti gli uni dagli altri. Per tutto il popolo la festa si trasformò così in lutto; ogni casa risuonava di pianto» (Historia Ecclesiastica, II,19,1).
Tali tumulti durarono per anni, e anche Giuseppe Flavio li descrive: «I sommi sacerdoti suscitarono una rivolta contro i sacerdoti e i notabili di Gerusalemme. Ognuno di loro si mise a capo di una banda di rivoluzionari […] e non c’era nessuno che li ostacolasse, ma ognuno faceva ogni cosa a proprio piacimento, come in una città in preda all’anarchia» (Antichità Giudaiche, XX,180-181). Lo storico racconta che i sommi sacerdoti depredarono perfino le decime riservate ai sacerdoti più poveri, destinandoli a morire di fame. Bande di briganti irrompevano ogni giorno in città e «mescolandosi alla folla, colpivano chi non era dei loro con dei piccoli pugnali nascosti sotto le vesti; e dopo averli uccisi, si univano a quelli che s’indignavano contro gli uccisori, restando così nell’ombra». Si diffusero così fra tutti paura e terrore, «poiché ciascuno, come in guerra, poteva essere colto dalla morte in ogni momento». Eusebio applicava a questi tragici avvenimenti le note profezie di Gesù su Gerusalemme: «Ci sarà una grande calamità nel paese e ira su questo popolo; cadranno sotto i colpi del pugnale, e saranno fatti prigionieri da tutti i popoli, finché i loro tempi non saranno compiuti» (cfr Lc 21,23-24).
Per porre fine a quest’anarchia i romani mandarono le truppe, ma il rimedio fu peggiore del male, perché molti fra i Giudei più in vista furono da loro fatti prigionieri, flagellati, e crocifissi. Anzi, poiché i disordini si erano estesi a tutta la Siria, «dappertutto i pagani uccidevano barbaramente, come nemici, i Giudei che abitavano nelle città. Il numero dei morti crebbe a tal punto da vedere queste città piene di cadaveri insepolti, di vecchi giacenti insieme a fanciulli» (Eusebio, op cit, II,26,2). Anche questo, Gesù l’aveva profetizzato: «Quando vedrete Gerusalemme assediata dai soldati, allora sappiate che è ormai prossima la sua rovina» (Lc 21,20). Eusebio narra anche di misteriosi moniti celesti che i cristiani di Gerusalemme ricevettero da Dio, che a loro «ordinò di abbandonare la diocesi e di trasferirsi in una città della Perea, di nome Pella» salvandosi così dalla catastrofe: «Quanti e quali mali si riversarono su tutto il popolo dei Giudei in ogni luogo […] le decine di migliaia di giovani che, insieme con donne e bambini, morirono di spada, di fame e in mille altri modi; quanti e quali furono gli assedi delle città giudaiche; i mali e le pene più tremende dei mali che videro coloro che si rifugiarono a Gerusalemme, stimandola la città più sicura; […] e, infine, il terrore dell’abbandono, annunciato già dai profeti, che si abbatté proprio sull’antico tempio di Dio, un tempo famo- Le profezie su Gerusalemme so, che attendeva completa distruzione e rovina piena nel fuoco» (Eusebio, op cit, III,5,3-4). Quello che non compì la violenza, lo compì la carestia. I primi ad essere uccisi furono i ricchi, per rubare loro ogni sostanza, poi i meno ricchi, e alla fine i rivoltosi assediarono ogni casa: «Essendo ormai chiaro che in nessun luogo era possibile trovare del cibo, facevano irruzione nelle case, perquisendole da cima a fondo; poi, trovato del grano, picchiavano coloro che ne avevano negato l’esistenza; se invece non lo trovavano, li torturavano, perché credevano che lo tenessero nascosto molto bene» (III,6,2). La fame raggiunse livelli da incubo: «le donne strappavano il cibo dalla bocca dei mariti, i figli da quella dei padri e, ciò che è molto degno di compianto, le madri da quella dei propri figli. […] Tuttavia non potevano restare nascosti e sfuggire alle ruberie commesse in ogni luogo dai rivoltosi. Il vedere infatti una casa chiusa a chiave era per costoro segno che coloro che vi abitavano stavano mangiando; sfondate subito le porte, vi facevano irruzione e, afferrati i malcapitati per la gola, facevano loro quasi uscire fuori i bocconi» (III,6,5-6). Chi moriva di fame per le strade non veniva nemmeno più seppellito, anche perché i sopravvissuti non avevano più la forza di farlo. Gli storici citati aggiungono particolari apocalittici da incubo, atrocità che sfiorano la pazzia e il cannibalismo. Raccogliendo le testimonianze di «un numero infinito di testimoni del mio tempo», Giuseppe Flavio riporta il numero dei morti per fame o per spada: un milione e centomila. Quando Tito, attraversando col suo esercito le valli della Giudea, le vide piene di cadaveri «alzò le mani al cielo, chiamando a testimone Dio che quello scempio non era opera sua» (III,6,15).
La triste profezia che Gesù aveva pronunziato fra le lacrime rimase nei cuori di quanti, avendo creduto, si salvarono: «Guai alle donne che saranno gravide e a quelle che allatteranno i loro figli in quei giorni. Pregate che la vostra fuga non abbia luogo d’inverno o di sabato; infatti vi sarà allora grande sofferenza, quale mai, dall’inizio del mondo fino ad oggi si è verificata, né accadrà mai più» (Mt 24,19-21).