Tanto nel contenuto del Motu Proprio Summorum Pontificum come nella Lettera di Benedetto XVI che lo accompagnava e indirizzata all’episcopato cattolico, è evidente che il S. Padre non ambiva solo a rispondere alla petizione di coloro che desiderano continuare a celebrare la fede nello stesso modo con cui l’intera Chiesa ha fatto sostanzialmente da quattro secoli (perché ciò che fino ad un certo punto è stato obbligatorio e considerato buono, non può essere proscritto il giorno dopo come proibito e dannoso: la Chiesa è Madre ed è assistita dallo Spirito Santo). Piuttosto, il Papa pensava anche, con il Motu Proprio, di aiutare tutti i cattolici a vivere la verità della liturgia affinché, conoscendo e partecipando all’antica forma romana di celebrazione, comprendessero meglio lo spirito delle espressioni della Costituzione Sacrosanctum Concilium, e potessero vivere e valorizzare la nuova forma di liturgia romana con una adeguata “ermeneutica della continuità”.
Il Motu Proprio non è nato semplicemente per tentare la pacificazione fra quelle anime cattoliche fortemente divise e contrapposte a causa del modo di celebrare la liturgia. Non è un Motu Proprio solo per affrontare il c.d. “lefebvrismo”. Il Summorum Pontificum è uno strumento per il vero rinnovamento liturgico, non dunque un atto contrario ai libri liturgici postconciliari in se stessi, e niente affatto contro la Sacrosanctum Concilium.
I libri liturgici che permette di usare, per la cosiddetta “forma straordinaria”, sono quelli posteriori all’enciclica Mediator Dei di Pio XII e raccolgono le riforme di quest’ultimo sulla liturgia tridentina, che aveva già sperimentato leggeri cambiamenti, ma in distinti momenti, durante i secoli; sono inoltre i libri liturgici con cui i Padri conciliari (quelli di Rito Romano, ovvero la gran maggioranza) celebravano, quando preparavano ed approvavano la Costituzione sulla Sacra Liturgia.
Il S. Padre mostra la sua persuasione che è cosa buona il fatto che i fedeli e i sacerdoti di oggi conoscano direttamente e pacificamente il modo precedente di celebrare il Rito romano, e che questo li sproni a vivere le forme nuove ed “ordinarie” di celebrazione in spirito di profonda comunione con la Chiesa dei loro antenati, con quella degli Apostoli e dei primi Padri, con quella di S. Leone e di S. Gregorio, ed anche con quella di S. Pio V, di S. Carlo Borromeo e del Beato Giovanni XXIII.
È un bene che convivano forme nuove ed antiche, tutte con eguale validità e legittimità, per un sereno assetto degli usi (liturgici) e una riconsiderazione centrale e profonda degli aspetti sostanziali del culto. Questa questione è la chiave di tutto, perché se la Chiesa intera non vive le sue celebrazioni e non si lascia modellare la mente e il cuore attraverso esse, non può vivere bene né la fede, né la morale, né la spiritualità. La crisi della Liturgia è crisi di tutto l’organismo cristiano: per questo la Liturgia è stata ed è, nella disciplina della Chiesa, materia riservata al Papa, capo del Collegio Episcopale e garanzia di fede e morale per l’intera Chiesa (le Conferenze episcopali, gli Ordinari ed altri organismi, hanno, in questa materia, alcune peculiari competenze delegate, ben specificate nel Diritto).
La stessa Costituzione Sacrosanctum Concilium insiste che per sua natura, la Liturgia esige che i sacerdoti non introducano in essa, di propria iniziativa, cambiamenti o interpretazioni personali (n. 22). Pertanto il compito degli “esperti” è quello di investigare con rigore scientifico, insegnare ed esporre, sotto la moderazione del Magistero, gli aspetti teologici, storici, pastorali, canonici, morali, spirituali ed antropologici di questa complessa materia; non tocca loro mai decidere come la Chiesa celebra la sua fede, come aggiorna i Divini Misteri, (benché i loro apporti siano tanto più apprezzati, per aiutare chi deve prendere decisioni in questa materia, quanto più le ricerche siano esigenti e rigorose).
Al sacerdote tocca, a sua volta, imbevuto, fin dalla sua prima formazione nel seminario, dello spirito della Liturgia cattolica (SC n 17), presiedere la celebrazione e coordinare i suoi diversi aspetti, con rigore e fedeltà ai libri liturgici approvati e con l’adeguata sensibilità pastorale per aiutare e formare tutti in ordine al vivere, in modo spirituale e veracemente, la Liturgia della Chiesa, Una, Santa, Cattolica ed Apostolica.
Le cose non succedono per caso: la situazione presente della nostra società, delle diocesi e parrocchie, in ciò che concerne la fede e la morale, ha cause ben precise. Attraverso una serie di “esempi storici di riforma liturgica” che esporrò saltuariamente in alcuni dei prossimi numeri del Timone, desidero offrire alcuni precedenti per valutare ed illuminare la situazione presente, di una riforma liturgica, venuta dopo il Vaticano II, che oggi non può considerarsi chiusa in tutte le sue dimensioni. (1 continua).
IL TIMONE N. 96 – ANNO XII – Settembre/Ottobre 2010 – pag. 47