Un anziano archivista veneziano, che aveva offerto l’ultima parte della sua vita all’opera più pia cui un laico possa essere chiamato, il servizio all’altare, usava istruire i ministranti più giovani ad ascendere i gradini che salgono all’altare cominciando con il piede destro. Questa norma, che egli aveva appreso in gioventù seguendo l’esempio di chi lo precedeva, fu da me ritrovata quasi immutata nel più antico di tutti i trattati di architettura, il De Architectura del latino Vitruvio, laddove si raccomanda che i gradini collocati nei templi siano in numero dispari, così che si possa iniziare e terminare la loro ascesa con il piede destro. Simile attenzione è manifestata dal Card. Borromeo, quando scrive nel suo Istructionum Fabricae che i gradini che precedono gli altari siano sempre almeno tre.
La tradizione ininterrotta dal pagano Vitruvio al pio archivista veneziano, passando per san Carlo Borromeo e per una moltitudine di altri santi, chierichetti, cerimonieri, architetti, artigiani, e per tutti quegli uomini comunissimi che dalle movenze e dai contenuti dei sacri riti traevano la legge e la forma della loro vita ordinaria, conferma l’importanza che il moto di ascesa ha sempre avuto nella pratica liturgica e in quella che potremmo senza remore chiamare coreografia sacra. Tale movimento, come ogni particolare del rito, comunica direttamente al sacerdote che lo compie e al fedele che lo vede compiere un insieme di significati sovrapposti che si disvelano a mano a mano e in modo diverso a ogni osservatore, come sempre accade delle cose che parlano all’anima attraverso simboli la cui interpretazione è insieme univoca e molteplice.
Seguendo l’incedere del celebrante lungo i gradini che conducono verso l’alto dell’altare, si poteva di volta in volta cogliere l’allusione all’altezza della sede di Dio, allo sforzo necessario per raggiungere la santità, alla nobiltà del sacrificio rituale e all’elevatezza cui è chiamato chi lo compie e chi ne partecipa. Il supporto indispensabile e l’espressione materiale di queste realtà, storiche, morali e simboliche, è offerto dalla presenza materiale di gradini e scalinate che delimitano le soglie principali interne ed esterne di ogni tempio dell’antichità e di ogni chiesa storica, dalle ziqurrat babilonesi alle parrocchiali italiane degli anni Cinquanta.
Nel Cristianesimo in particolare, queste costanti di ogni religione sono arricchite e sviluppate da un numero di riferimenti scritturali che eleggono il monte a luogo privilegiato della teofania, come accade con il Discorso della montagna o con la Trasfigurazione sul monte Tabor, fino alla salita al monte Calvario sul cui sommo l’Uomo divino fu infine elevato tra cielo e terra. Nel tempio cattolico le scale si trovano in particolare a marcare l’ingresso al luogo consacrato, collocandolo su un piano almeno leggermente rialzato rispetto alla distesa profana che lo circonda, e all’interno del luogo sacro si trovano ancora a precedere il presbiterio, dove fungevano anche da umile appoggio alle ginocchia dei comunicandi, e infine li si incontra a circondare gli altari e a portarli maggiormente verso l’alto. Talvolta è lo stesso altare ad assumere la sembianza del monte, con la sua croce alzata su di esso e con tre, cinque, a volte sette gradini, che il sacerdote ascende per immolare se stesso “in persona Christi” sull’altare nuovo Golgota.
Ecco dunque che un elemento umile e scomodo quale il gradino che si calpesta diventa tramite per trasmettere all’osservatore la natura sacrificale della liturgia e la sua identità con il sacrificio fondativo del culto cristiano compiuto in cima a un monte dopo l’ardua salita del Calvario. La discesa degli altari dove si celebra il rito dai gradini che un tempo li innalzavano e la frequente riduzione dei santuari a nude spianate hanno contribuito, forse programmaticamente, a privare il culto dell’evidenza di quel significato sostanziale e salvifico. La strada per restaurare l’interezza del senso della liturgia cattolica deve dunque passare anche dalla ricostruzione di quei gradini che davano pregnanza di significato alle parole del salmista, recitate un tempo da ogni sacerdote prima di ascendere all’altare del divino sacrificio: «Emitte lucem tua et veritatem tuam, ipsa me deduxerunt et adduxerunt in montem sanctum tuum, et in tabernacula tua».
IL TIMONE N. 116 – ANNO XIV – Settembre/Ottobre 2012 – pag. 47
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