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15.12.2024

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Lebbra… da baciare
31 Gennaio 2014

Lebbra… da baciare



La Chiesa è capace di avvicinare, curare e prediligere gli afflitti da malattie “mostruose”. Perché trasfigura tutte le deformità, vedendo nella carne lacerata dall’infermità dell’uomo il volto di Gesù

Qualche mese fa, una foto di papa Francesco ha fatto il giro del mondo, suscitando clamore e ondate di “commozione”: il papa è ripreso mentre, visibilmente turbato, accarezza e poi addirittura bacia un uomo afflitto da una malattia teratologica che ne deturpa “mostruosamente” il corpo e il viso: il morbo di von Recklinghausen. L’aspetto di quell’infelice è davvero impressionante.
I coraggiosi della penna facile subito si sono precipitati a spiegare che quella è “carne di Cristo” per quanto “sfigurata”, perciò quel gesto andava fatto – ed è stato fatto – dal vicario di Cristo, e ciò non deve meravigliare o scandalizzare, né impressionare. Già, stupenda teoria. E ciò non di meno, i più non l’avrebbero fatto senza che gli si torcesse lo stomaco. Perché è questo il mistero terribile e triste del peccato originale, che rende talvolta oscena e spaventosa la sofferenza fisica, mostruoso il male, la malattia. La carne lacerata dal peccato originale è scandalosa, repellente e getta un tumulto nel cuore. Persino gli occhi si rifiutano di vedere. Suscita scandalo persino… ammetterlo!
Solo, appunto, il vedere nella carne deturpata dal peccato originale la carne redenta dal Cristo, solo questo ce la rende tollerabile. O almeno: ci dà il coraggio di “baciarla” sfidando l’orrore, che pure resta. Altrimenti dove sarebbe il sacrificio? Così è sempre stato nei secoli: in nome di questa “trasfigurazione” della mostruosità, la Chiesa ha abbracciato e “baciato” tutte le mostruosità umane, si è mobilitata, come per i lebbrosi, ad esempio. Non è un caso che negli stessi giorni del “mostro di Francesco”, ha iniziato a circolare un’altra foto: ritraeva papa Benedetto XVI mentre carezza e benedice la testa, “mangiata” dal morbo, di un lebbroso ormai senza più volto.

Un destino impietoso…

La lebbra, dunque. Che funestò particolarmente tutto il Medioevo e la ritroviamo in ogni cronaca del tempo: il lebbroso fa capolino in ogni storia medievale, con il suo bastone, il campanello per annunciare la sua presenza, coperto dalla testa ai piedi di una specifica veste, e rifuggito da tutti. Ma non dai monaci e dai frati.
Perché gli effetti di quella malattia virale sul corpo erano particolarmente ributtanti, con le sue cancrene, ulcerazioni, noduli, vescicole, bolle, ponfi, chiazze, pustole, polipi al volto specialmente: “mangiava” lembo dopo lembo pezzi di carne e interi arti, il volto, e quel che ne restava lo rendeva mostruoso, inguardabile. E per giunta pericoloso: era una malattia altamente contagiosa. E perciò i lebbrosi erano doppiamente temuti e lasciati soli, ed era questa la loro sofferenza più grande.
Il destino dei lebbrosi era fra i più infami e disumani che si possa immaginare. Mostruosi e contagiosi, erano spesso vittima di superstizioni e sospetti popolari incontrollabili: se non si arrivava a dire che erano così ridotti per qualche artificio demonico, si sosteneva però, proprio come accadrà nel ’600 per gli appestati, che taluni di loro “forse” o “sicuramente” erano una sorta di “untori” (la lebbra si trasmetteva per contatto), che infettavano cose e uomini per pura perversità, o magari in combutta con oscuri personaggi malefici, può darsi streghe. Ragion per cui dovevano essere brutalmente scacciati dalla loro comunità, spinti fuori dalle mura cittadine le cui porte mai più si sarebbero riaperte. Né mai avrebbero dovuto avvicinarvisi: in tal caso era lecito malmenarli, bastonarli, lapidarli.
Praticamente si dichiarava la morte civile del lebbroso, simbolicamente e concretamente. Non è un caso che appena entro le mura cittadine si riscontrava un caso di lebbra, quest’infelice con un vero sinistro corteo funebre veniva accompagnato alle porte della città ed espulso per sempre, abbandonato da tutti al suo destino infame. Perdendo ogni diritto di cittadinanza e la stessa identità. Da allora avrebbe vagabondato nelle campagne in cerca di qualche elemosina per sopravvivere, in attesa della morte spaventosa che lo attendeva, ma che era comunque spesso un sollievo, rispetto a questo pozzo di solitudine.

… alleviato dalla Chiesa
Una situazione incresciosa, indegna della cristianità, alla quale decisero di porre se non fine rimedio monaci, frati, preti secolari, talora le confraternite. Tutti quanti spinti e motivati dal pronunciamento del Concilio Lateranense III, che per bocca di Alessandro III, nel canone XXIII dichiara: «L’Apostolo Paolo dice: “Bisogna onorare maggiormente coloro che soffrono”. (…) Noi stabiliamo dunque, in virtù della benignità apostolica, che dovunque questi uomini [i lebbrosi] siano riuniti in numero sufficiente per condurre vita in comune, possano disporre di una chiesa e di un cimitero e beneficiare di un prete».
I primi a darsi una mossa furono i cavalieri di San Lazzaro, noti come Lazzariti: ospedalieri appartenenti all’Ordine Militare e Ospedaliero di San Lazzaro di Gerusalemme, costituitosi a Gerusalemme nell’XI secolo, nato proprio per prestare soccorso e dare un luogo dove stare ai lebbrosi. Da Gerusalemme si diffusero ovunque, Roma compresa: fondavano lebbrosari fuori dalle mura cittadine (preferibilmente vicino ad acque sulfuree, ritenute curative per la lebbra), dove i malati potevano vivere insieme mitigando così la loro solitudine, lontani da occhi indiscreti e malevoli, dalle fobie collettive, assistiti in tutto dai frati, anche nella fede. I cavalieri lebbrosi che avessero fatto un cammino di fede potevano persino passare dallo status di degenti a quello di monaci, entrando in quest’Ordine e prendendone i voti. Ed era così, nel ventre accogliente della Catholica, che ritrovavano una “cittadinanza” e persino una nuova identità; l’umanità perduta anche. Non è un caso che anche quando un infelice veniva accolto nel lebbrosario (nel frattempo erano diventate vere cittadelle ospedaliere), un prete gli andava incontro, lo confessava, lo aspergeva con acqua santa e «gettava sul suo capo la terra del cimitero», come se fosse già cadavere, pronunciando le parole: «Muori al mondo e rinasci a Dio». Così gli veniva restituita una vita.

San Bernardino da Siena
Scrive la medievista Francoise Beriac, che il cambiamento sarà qualitativo, e dalle tristi, sparute e disperate “adunate” spontanee per le campagne di poveri lebbrosi per solidarizzare tra reietti, adesso si passava a uno spirito solidaristico ampio, proprio delle comunità allargate: «Il passaggio da una comunità informe a un lebbrosario si delineava tramite l’associazione dei lebbrosi con dei monaci incaricati di prodigare loro delle cure spirituali» e anche materiali. Il loro animo, forse, era più bisognoso d’essere alleviato dello stesso corpo piagato. Perché la lebbra era anzitutto una malattia sociale, il cui agente patogeno principale era la solitudine: diventava un male dell’anima. Era questa la sofferenza principale del lebbroso. E a questa la Chiesa guardò con maggiore delicatezza, in quei lebbrosari.
Continua la Beriac: «Nelle tante villae novae o nelle rinascenti città del Basso Medioevo i lebbrosari erano invece ricoveri dove ai lebbrosi veniva prestata un’assistenza caritatevole da parte di un personale eroico per devozione [nel senso proprio di cristiano], che ribaltava il rifiuto in accoglienza e la ripugnanza in solidarietà » del mondo laico.
Erano però anche liberi di andarsene dal lebbrosario e tornare alla pericolosa vita errabonda da mendicanti, con campanelli attaccati ovunque e un campanaccio da mucca al collo, per annunciare la loro sgradita presenza (così imponevano le leggi di “prevenzione”), di modo che tutti potessero scansarli per non essere “contaminati”. Purtroppo spesso s’avvicinavano un po’ troppo alle mura cittadine, per la fame, e rimediavano bastonate e sassate.
Dinanzi a questa disumanità, insorge san Bernardino da Siena, un predicatore dell’Osservanza, la vera “star” cattolica del XV secolo, quando – grazie ai lazzaretti e alle plurisecolari cure dei monaci lazzariti – i casi di contagio s’erano già diradati, e perciò i Lazzariti furono soppressi, e il loro posto era stato preso dai francescani. Trovava indegno che gli statuti nientemeno che di Assisi, la città di Francesco, nero su bianco prevedessero che «nessun lebbroso osi entrare nella città… e, se qualcuno sarà trovato, che possa ognuno percuoterlo impunemente».
Bernardino costernato e furibondo, non poteva non pensare che proprio sotto quelle mura assisiate lì, il Poverello, il suo santo padre Francesco, a un mendicante (proprio come lui) lebbroso, che un momento prima era stato tentato, come tutti, di allontanare, aveva dato un bacio. Quello stesso Francesco che negli ultimi mesi di vita fu colpito da cecità o più verosimilmente dagli effetti della lebbra. Forse proprio a causa di quel bacio.


Per saperne di più….

Iris Origo, Bernardino da Siena e il suo tempo, Rusconi, 1982.
A. Fontini, Nova vita di San Francesco d’Assisi, Milano, Alpes, 1926.
F. Beriac, Histoire des lèpreux au Moyen Age, Imago, 1988.
Carlo M. Cipolla, Cristofano e la peste, Il Mulino, 2013.
Carlo M. Cipolla, Il pestifero e contagioso morbo, Il Mulino, 2012.

IL TIMONE N. 129 – ANNO XVI – Gennaio 2014 – pag. 54 – 55

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