La modernizzazione non comporta necessariamente la diminuzione della vita religiosa. Solo in Europa la modernità ha visto la vittoria del secolarismo. Ma con l’«eccezione italiana» e di pochi altri paesi. Dove il cattolicesimo resiste a livello popolare, ma non trova quasi mai classi dirigenti adeguate.
E' vero che in Italia, come si dice spesso, “non c’è più religione”? Siamo un paese “secolarizzato”?
I sociologi distinguono in realtà fra secolarizzazione qualitativa e secolarizzazione quantitativa. La secolarizzazione qualitativa (che alcuni preferiscono chiamare «desacralizzazione», e nei paesi cristiani «scristianizzazione») è la progressiva perdita di rilievo della religione nella vita culturale e politica, a causa anche del secolarismo (che è un’ideologia che mira a escludere la religione dalla società, e non va confuso con la secolarizzazione, che è invece un fatto). La secolarizzazione è invece la progressiva diminuzione della percentuale di persone religiose all’interno delle società moderne. I due fenomeni non sempre coincidono.
La secolarizzazione quantitativa, poi, può riguardare due modi diversi di essere religiosi: le credenze e le appartenenze. È possibile che in una data società il numero di persone che dichiarano di essere religiose o di credere in Dio sia molto elevato, e che, nello stesso tempo, il numero di coloro che sono in contatto regolare con le istituzioni religiose sia molto basso. È il fenomeno che la sociologa inglese Grace Davie ha chiamato believing without belonging («credere senza appartenere»). Secondo i suoi teorici, anche la secolarizzazione quantitativa (e non solo quella qualitativa) sarebbe un portato necessario della modernità, la cui fiducia nell’autonomia individuale, nella razionalità, nella scienza eroderebbe le basi stesse della religione, con conseguente, inevitabile diminuzione delle persone a vario titolo religiose. Fin dal secolo XIX, c’è stato però chi ha contestato queste teorie, mostrando l’esempio degli Stati Uniti dove un forte sviluppo economico e scientifico non faceva diminuire la pratica religiosa, che si manteneva a livelli molto alti, come avviene ancora oggi.
I teorici della secolarizzazione europei parlavano perciò fino a dieci o quindici anni fa di «eccezione americana». Negli anni 1990, tuttavia, una serie di lavori notavano un andamento delle statistiche religiose in Africa, Asia e America Latina molto più simile agli Stati Uniti che non all’Europa Occidentale (cui sembravano avvicinarsi invece il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda, che sono però in un certo senso appendici dell’Europa).
Oggi molti sociologi sono passati dalla tesi dell’«eccezione americana» a quella dell’«eccezione europea», secondo cui non sono gli Stati Uniti a fare eccezione a una presunta regola universale secondo cui la modernizzazione genera necessariamente una diminuzione della pratica religiosa; è piuttosto l’Europa il «caso eccezionale». La maggioranza dei sociologi che avevano a suo tempo costruito il modello della secolarizzazione – a partire, per citare un nome famoso, da Peter Berger – oggi hanno cambia-to idea e parlano piuttosto di una «de-secolarizzazione» globale, cui la sola Europa farebbe appunto eccezione. Nonostante tutto, il 77,4% degli europei occidentali afferma di credere nell’esistenza di Dio. L’«eccezione europea» riguarda piuttosto la pratica religiosa regolare. La pratica settimanale si attesta secondo la citata sociologa inglese Grace Davie nell’Europa Occidentale al 20,5%, la metà esatta del dato americano.
I dati, naturalmente, sono di complessa interpretazione: si deve tenere conto del fatto che le statistiche che Grace Davie prende in esame sono basate sulle risposte a interviste, e che è possibile che un certo numero di per-sone non facciano quello che dicono – cioè, mentano agli intervistatori quando affermano di praticare la loro religione, generando il fenomeno del cosiddetto over-reporting.
D’altro canto, ci si può chiedere fino a che punto sia possibile descrivere l’Europa Occidentale come un’unica entità, dal momento che i dati riportati dalla sociologa inglese mostrano variazioni sostanziali sia della pratica religiosa settimanale sia di quella «almeno mensile»: quest’ultima va dal 2,7% della Danimarca e dal 7,6% della Francia fino al 40,5% dell’Italia e al 56,9% dell’Irlanda, per non parlare delle cifre ancora più alte della Polonia e di Malta. Ancora, si discute quanto sia rilevante nei paesi cattolici – dove la Chiesa chiede ai fedeli di rispettare il precetto domenicale – la pratica «almeno mensile», che è lo standard considerato di solito più indicativo nei paesi protestanti.
L’«eccezione italiana»
Tuttavia, all’interno della «eccezione europea» – che in casi come quelli della Polonia e dell’Irlanda può includere nelle statistiche anche un «appartenere senza credere», cioè una pratica religiosa che costituisce anzitutto affermazione di identità nazionale in paesi dove occupazioni straniere o regimi totalitari hanno cercato di negarla – molti sociologi cominciano a parlare di una «eccezione italiana».
Non solo i dati italiani relativi a chi dichiara di avere una pratica religiosa «almeno mensile» sono molto più alti di quelli del resto del nucleo storico dell’Unione Europea (e tra cinque e sei volte maggiori della Francia), ma in Italia la rilevanza culturale e anche il peso politico del cattolicesimo sono certamente maggiori rispetto a tutti i paesi vicini. Lo nota un importante volume di un eccellente sociologo torinese che pure ha un percorso politico assai diverso dal mio, Franco Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo (il Mulino, Bologna 2006). Dal referendum sulla procreazione assistita al fenomeno tipicamente italiano (ma che ora si estende ad altri paesi) degli «atei devoti», fino al fatto secondo cui la Chiesa gode in tutti i sondaggi di una stima in Italia superiore a ogni altra istituzione, Garelli riprende le tappe di una sostanziale e pluridecennale «tenuta» del cattolicesimo in Italia, che da ultimo si manifesta anche nell’entusiasmo che ha circondato Giovanni Paolo II e circonda Benedetto XVI.
Il problema dell’assenza di classi dirigenti
Naturalmente – l’osservazione, qui, è mia, non di Garelli – come già quando all’epoca delle Insorgenze contro il giacobinismo prima e la conquista napoleonica poi, delle varie forme di resistenza popolare all’anticlericalismo risorgimentale, della grande mobilitazione di popolo contro il comunismo nelle elezioni del 18 aprile 1948, questa «eccezione italiana» è un punto di partenza, non di arrivo. Per influire sul Paese in una misura che corrisponda alle sue dimensioni quantitative ha bisogno di una classe dirigente – che è spesso mancata – che aiuti la fede a diventare cultura. Perché – come insegnava Giovanni Paolo II nel 1982 – «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta».
L’«eccezione italiana» pone dunque un problema alla nuova evangelizzazione proclamata dal Magistero pontificio: la sensibilità e la disponibilità di tanti cattolici non mancano, come ha anche dimostrato la mobilitazione in occasione del referendum sulla legge della procreazione medicalmente assistita nel giugno del 2005, ma non si vedono, se non a livello embrionale o locale, classi dirigenti, né a livello ecclesiastico né politico, disposte a coordinare questo entusiasmo. Rischia di ripetersi quanto già accaduto nella storia italiana: il fallimento delle insorgenze per mancanza di capi, la vittoria mai più celebrata del 18 aprile 1948. Andrà così un’altra volta?
Ricorda
«Senza dubbio i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano; anzi, tutta la sua storia e la sua cultura sono impregnate di cristianesimo e intimamente intrecciate col cammino della Chiesa a partire dai tempi apostolici. Lo testimoniano non soltanto le innumerevoli opere d’arte, che sono venute ad impreziosire nel corso dei secoli le varie contrade di questa terra, ma anche le tradizioni, gli usi, le consuetudini, a cui si ispira l’agire della gente d’Italia, nel contesto di un umanesimo cristiano vissuto ed arricchito col contributo di tante generazioni».
(Giovanni Paolo II, Discorsoal Convegno della Chiesa italiana, Loreto, 11 aprile 1985).
IL TIMONE – N.60 – ANNO IX – Febbraio 2007 pag. 14-15