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13.12.2024

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L’eredità di Claudio
31 Gennaio 2014
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L’eredità di Claudio

 

 

Il figlio di Claudio Chieffo, indimenticabile poeta cantautore, già collaboratore del Timone, ci racconta di suo padre. Che nel 2007 è «andato da Dio» per dirgli…


«Un’amica mi raccontò che oltre ai “normali” cantautori ce n’erano alcuni che facevano “canzoni religiose”?!? Ridicolo – pensai – a me non succederà di certo!». Inizia così con “Abbiamo suonato” l’avventura musicale di Claudio Chieffo, mio padre. Un fatto musicale e artistico che ha del sorprendente e che è passato attraverso oltre cento canzoni.
Chi era Claudio Chieffo? Un poeta cristiano che faceva canzoni. Un personaggio strano. Un poeta, e ascoltando le sue canzoni non si può non riconoscerne la poesia. Cristiano, i testi e le melodie semplici puntano dritte senza fronzoli al cuore della vita. E sono capaci di parlare ad ognuno. Ovvero dicono quello che ogni uomo ha in cuore ma solo il poeta è capace di esprimere. I suoi canti sono diventati per molti una compagnia ed un sostegno perché appartengono alla loro vita.
Don Francesco Ricci, uno dei suoi padri spirituali insieme a Don Luigi Giussani, raccontava della fortissima emozione provata nel risentire I cieli intonato dalle donne in una chiesetta del sud, quando aveva intuito che quel canto nato da un fatto privato (l’innamoramento tra mio padre e mia madre) era diventato patrimonio comune del popolo cristiano. Don Ricci in quella occasione avvertì che «la fede può compiere il miracolo della comunione dei beni, e dare ad ogni particolare un respiro di universalità, non astratta, ma concreta e vissuta».
Nel quarto anno di un’assenza (Claudio è morto la notte del 19 agosto 2007) mi ritrovo a riscoprire una particolare presenza. Imprevedibile presenza. Attraverso le canzoni, ma imprevedibilmente oltre le canzoni. I primi tempi riascoltare le canzoni di Claudio era un modo molto fortunato di poter prolungare la sua presenza tra noi. Ma c’era qualcosa che non tornava. C’era qualcosa che rimaneva assente. L’assenza fisica si continua a sentire, infatti. Mi manca il suo sguardo con cui era capace di abbracciare, anche solo di sfuggita, con cui mi faceva capire se era d’accordo o meno con me, con cui mi guardava facendomi capire che mi voleva bene anche se non capiva il perché di una mia scelta. Questo suo modo di accompagnare mi manca molto (io non ne sono capace e avrei voluto impararlo da lui), così come mi manca una sua carezza o la sua mano sulla spalla. Certo, si può riascoltare la sua voce nelle registrazioni, questa è una grande grazia. Poter riascoltare la sua voce aiuta a sentirlo vicino. E la grandezza di quella voce e di quelle canzoni va oltre, molto oltre le belle e pur fondamentali registrazioni.
Quello che ho scoperto è che davvero c’è un’eredità. Non sono i diritti d’autore (di cui lui non ha mai campato e di cui non camperemo certo noi eredi), non sono l’orologio e la chitarra meravigliosa che mi ha lasciato. E non sono soltanto le canzoni, come, capisco solo ora, non sono state neppure per lui. La vera eredità sono gli incontri che le canzoni generano. E il grande affetto che le accompagna. Perché tanti sono stati toccati, feriti, accompagnati, dalle sue canzoni.
Giorgio Gaber, di lui aveva detto: «Nelle canzoni di Claudio c’è un’onestà, una pulizia, un amore naif che fa pensare. Siamo profondamente diversi, non solo per le sicurezze che lui ha e che io non ho, ma soprattutto perché nelle sue canzoni lui non fa mistero delle sue certezze». Non c’è artificio nelle canzoni di mio padre per renderle popolari, sono popolari di fatto, forse proprio perché non nascondono quelle certezze da cui sono nate e perché sono rivolte a tutti. Parlano all’uomo dell’uomo stesso. L’unico scopo dichiarato delle sue canzoni era, ed è, quello di spingere chi le ascolta a desiderare il bello, il vero e il giusto sopra ogni cosa, in tutto. Per questo, credo, resteranno sempre attuali.
Nell’ultimo anno sono stato messo nelle condizioni di riscoprire la potenza delle sue canzoni, la verità dei suoi testi. Le canzoni, dalle prime più semplici e dirette (come Il seme, I cieli, Lasciati fare, Io non sono degno, che hanno trovato posto in tutte le chiese del mondo a supporto delle celebrazioni) a quelle più raffinate che io chiamo della “maturità” (probabilmente frutto della Grazia di vivere la Comunione dei Santi, come La canzone del melograno, Andare, La notte che ho visto le stelle), passando anche per le canzoni “da ridere” (come Avrei voluto essere una banda), le canzoni – dicevo – testimoniano e raccontano a chi le ascolta e le canta il cammino di un cristiano: la disperazione dell’uomo di fronte allo scarto tra sé e il Mistero, l’incontro con Cristo, la presunzione di aver capito tutto e di poter far da sé, la necessità di una compagnia, di una comunità, la gioia di scoprire che tutto è dato all’uomo da Dio per imparare a volerGli bene, la capacità di prendere in giro le proprie miserie, la fatica del cammino di un cristiano tentato di cedere alle lusinghe del peccato, la scoperta dell’amore, il matrimonio, i figli a cui il padre vorrebbe evitare tutte le fatiche, ma che a loro volta debbono necessariamente fare il proprio incontro e il proprio cammino, la scoperta che la promessa del centuplo Dio la mantiene, la grazia della Comunione dei Santi e la riscoperta della tenerezza di Dio nei confronti dell’uomo. Sempre Don Francesco Ricci scriveva: «posso testimoniare che la fonte del suo canto gli viene da un di fuori di lui, tanto che lui non ne resta mai meno sorpreso e stupito di noi. Come potrebbe un poeta destare stupore negli altri, se prima non lo desta a se stesso?». Sorpresa e stupore che Claudio non poteva tenere per sé: «queste canzoni nascono in me come un dono e come tale vanno ridonate. Così come un dono è la vita e ancora un dono il suo significato. Sono le canzoni del centuplo e della vita; potrei tenerle per me?», così scriveva infatti nel testo introduttivo di uno dei primi libri che conteneva i testi delle sue canzoni. Per lui cantare non era una esibizione, ma la «manifestazione concreta dell’inarrestabile comunicarsi di un fascino che pervade tutta la vita». Negli ultimi due anni mi è capitato di fare molti concerti con le sue canzoni. Sento spesso dire: «ascolto le canzoni di tuo padre da quando avevo 14 anni e adesso ne ho 50»; io stesso mi sono ritrovato a dire a tanti che molte di queste canzoni le ho sentite nascere, che le ho nel DNA. Eppure sto facendo una esperienza incredibile. Cantando certe canzoni mi commuovo nel sentire cose nuove… anche nei silenzi, nelle pause che non sono mai a caso. Oppure mi diverto lasciando cantare la gente, invitandola a cantare e venendo investito dalla bellezza di vedere tanti occhi che si illuminano e tanti cuori che si spalancano. Mi sembra di rivivere le parole della Canzone degli uomini liberi «Quando tornerò, quando tornerò / mi correranno incontro i bambini / e sarà festa, grande festa, / nelle case e nelle strade / e la verità splenderà come il sole / e la verità splenderà come il sole». E cantando insieme davvero «sento la vita che mi scoppia dentro al cuore» perché quelle parole ci rendono liberi, uomini e donne liberi (e anche bambini, perché è così bello cantare insieme ai bambini).
Non era programmato, non avevo mai cantato prima, eppure mi sono ritrovato a farlo, libero dalla preoccupazione dell’esito. Perché l’esito lo decide un Altro ed è sempre un incontro inatteso che spalanca alla vita. Per Claudio il canto è sempre stato un incontro, non un mestiere ma una vocazione. Quando mi chiamava rientrando da un concerto e diceva che era andato bene sapevo che non si riferiva al fatto di aver cantato bene, ma si riferiva al fatto che aveva incontrato delle persone.
Ecco la vera eredità di Claudio. Gli incontri, le persone e la libertà. È la Grazia di cui sono indegnamente investito. Continuiamo a cantare insieme! È così bello cantarle insieme. Più ho occasione di cantarle più mi riscopro uomo in cammino (e di questo devo essere particolarmente grato agli amici dei canti della Macerata-Loreto che tra l’altro mi hanno insegnato a essere libero dal desiderio di possesso nei confronti delle canzoni). Un cammino che ha una meta molto chiara. Non mi stancherò mai di raccontare uno dei nostri ultimi dialoghi: «Martin, dove vanno le persone felici?” “Non lo so, babbo, hai qualche idea in proposito?” “Si, vanno da Dio a dirglielo!”».
Ma è ancora molto lunga questa strada, e ho ancora tanta voglia di cantare…

 

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 106 – ANNO XIII – Settembre/Ottobre 2011 – pag. 52 – 53

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