È il canto proprio della liturgia romana, ma non gode di buona salute. Anche nei monasteri e nelle cattedrali è dimenticato. Un patrimonio di cinquemila canti messo al bando, soprattutto nei paesi latini. Per sostituirlo, a volte, con cantilene melense indegne della Messa.
Intervista a Monsignor Valentino Miserachs Grau.
Papa Gregorio Magno vedeva lontano. L’antifonario in cui catalogò nel 590 le antiche melodie liturgiche (da lui «gregoriane») volle che fosse legato con le catene all’altare maggiore della Basilica costantiniana di san Pietro a Roma (quella sulla quale è stata costruita l’attuale basilica di san Pietro). Un segno inequivocabile di perpetuare quel repertorio: temeva che un giorno se ne potessero perdere le tracce. Prima di Gregorio Magno il canto «gregoriano» esisteva già. I cristiani delle prime comunità lo usavano per intonare le preghiere. Divenne presto il canto proprio della liturgia romana. «Gregoriano» fu chiamato più tardi proprio in onore di papa Gregorio e della sua opera di classificazione. Dal VII al X secolo fu il periodo di massima espansione: in tutta Europa si moltiplicarono le «scholae cantorum» e ci furono scambi intensi di melodie e “belle voci” tra scuole, basiliche e monasteri anche molto lontani tra di loro. Monaci cantori, a coppie o in drappelli, attraversarono le Alpi con sacchi pieni di antifonari: arrivarono fino in Inghilterra e in Irlanda, diffusero le melodie più belle, insegnarono il modo corretto di cantarle. Anche i governanti del tempo ne furono conquistati.
Pipino il Breve implorò il Papa di dargli due cantori per risollevare il livello musicale dell’abbazia di san Medardo in Francia. Carlo Magno fece lo stesso dopo che a Roma i suoi cantori furono così etichettati: «Mugghiano come tori». Alla fine del IX secolo fu decisiva la nascita della scrittura musicale «neumatica». Le melodie, in larga parte trasmesse oralmente, potevano ora essere ricordate con un’inedita precisione grazie ai neumi, segni grafici (più tardi a forma di quadrati) posti sopra la sillaba del testo per indicare l’altezza della nota corrispondente. Nel secolo scorso i monaci benedettini dell’abbazia francese di Solesmes hanno riportato il canto agli antichi splendori, dopo secoli di alterne fortune.
Oggi però per il gregoriano sono tutt’altro che tempi felici. Anzi, pare che il giorno tanto temuto da papa Gregorio sia già arrivato.
«Salvate il canto gregoriano». Monsignor Valentino Miserachs Grau, da più di un decennio preside del Pontificio istituto di musica sacra, non sa più come ripeterlo. Magari con un melisma, uno di quei “vocalizzi” che hanno reso inconfondibile la melodia gregoriana, se questo servisse a ridargli nella liturgia «il posto che gli spetta». Musicista spagnolo, 62 anni, compositore assai apprezzato, monsignor Miserachs non si dà pace per l’“esilio” del gregoriano.
Monsignor Miserachs perché è così preoccupato?
«Stiamo accantonando un tesoro. Non saprei altrimenti come definire un patrimonio di circa cinquemila canti, il più antico dei quali è racchiuso in un manoscritto del IX secolo…».
Eppure sembra ci sia un nuovo interesse per il gregoriano?
«È un interesse confinato nell’ambito dell’accademia, del concerto o del compact disc. Mentre il ruolo del gregoriano era ed è nella liturgia».
Dove sono stati abbandonati i canti gregoriani? Nelle parrocchie?
«Non solo, purtroppo. Perfino nei monasteri e nelle cattedrali si cantano poco. Sono almeno quarant’anni che nei paesi, soprattutto quelli latini, il gregoriano è stato messo al bando».
Sebbene non manchino documenti papali sull’importanza del gregoriano…
«Quello più recente è il “chirografo” di Giovanni Paolo II, formulato in occasione del centenario di un altro documento, il motu proprio del 1903 “Inter sollecitudinis” di san Pio X, ma anche la “Musica sacrae disciplinae” di Pio XII, per non parlare della costituzione sulla liturgia del Concilio Vaticano II…».
Già, il Concilio, non assegnava al gregoriano il posto principale nella liturgia?
«Sì, ma è stato in parte disatteso. Con il pretesto di creare un repertorio di canti non in latino c’è stata un’incomprensibile proliferazione di prodotti musicali che non hanno saputo innestarsi su una tradizione bimillenaria, arrecando così un danno forse irreparabile».
Si riferisce ai canti che abitualmente si ascoltano la domenica nelle nostre chiese?
«Non tutti, ma molti sono davvero indegni della casa del Signore. Spesso sono cantilene melense o trasposizioni infelici di motivi presi dalla musica leggera o dalla tv… Come possono sostituirsi alla nobiltà e alla robustezza delle melodie gregoriane? Non dimentichiamo poi che i testi del gregoriano sono tutti presi dalle Scritture».
D’accordo, ma con il latino come la mettiamo?
«È sempre stato un alibi. Abbiamo sottovalutato le capacità di apprendimento del popolo cristiano, lo abbiamo costretto a dimenticare il repertorio gregoriano. Prendiamo le acclamazioni. Mi sembra difficile che la gente non ricordi le parole latine del Gloria…».
Non mi dirà che tutto il repertorio gregoriano è adatto al popolo…
«No, però ad esempio c’è una raccolta, il “Jubilate Deo” di Paolo VI, nella quale ci sono melodie gregoriane così facili che s’imparano dopo averle ascoltate una sola volta…».
Nella liturgia c’è posto solo per il gregoriano?
«Se il canto popolare religioso è di qualità può coesistere con il gregoriano. “Il vero canto popolare sacro tanto più sarà valido quanto più si ispirerà al canto gregoriano”. Così ha scritto Giovanni Paolo II, riprendendo san Pio X».
Qual è la via maestra per un rilancio del gregoriano?
«Innanzitutto la formazione musicale di preti, religiosi e fedeli: eviteremo così di affidarci ancora alle improvvisazioni di musicisti poco preparati».
Lei spesso parla al plurale, quanta responsabilità c’è in questa situazione da parte di voi sacerdoti?
«Tanta. Spesso noi sacerdoti pensiamo che possano attirare alienanti strimpellamenti di chitarre…».
Le chitarre proprio non le piacciono…
«Credo che l’organo sia lo strumento “principe”, come dicono i documenti. Con il gregoriano è anche superfluo, è nato come canto vocale, in origine solo monodico (ad una voce, ndr), poi anche polifonico».
Pensa che il gregoriano possa essere uno strumento di evangelizzazione?
«Senza dubbio. È un canto universale, perfino le melodie delle tradizioni locali di paesi ben lontani dalla cultura europea sono parenti prossime del gregoriano. Potrebbe fare da amalgama. Le Chiese giovani dell’Africa e dell’Asia ci sono da esempio nel rispetto e nell’orgoglio per il canto tradizionale della Chiesa».
Lei presiede un istituto che è un po’ il conservatorio della Santa Sede, quale contributo può dare?
«Il nostro istituto forma musicisti di chiesa di tutto il mondo, ma non c’è un ente del Vaticano che coordini direttamente il lavoro di tutti gli operatori e vigili sulle celebrazioni liturgiche. Per questo manca oggi un’adeguata attenzione alla musica sacra nella Chiesa».
Benedetto XVI è un grande conoscitore e appassionato di musica. Crede che il suo apporto sarà determinante?
«Penso di sì. Del resto se vogliamo ritornare alla serietà della liturgia è tempo di ripristinare il canto gregoriano. Comincino le cattedrali, i monasteri, i conventi, i seminari e le case di formazione religiosa. Così anche le parrocchie finiranno per essere contagiate dalla bellezza suprema del canto della Chiesa».
RICORDA
«La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale».
(Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 116).
IL TIMONE – N. 52 – ANNO VIII – Aprile 2006 – pag. 50 – 51