Il XVI fu un secolo fatale perché vide la fine della Cristianità, con la perdita, per la Chiesa, di quasi tutte le nazioni del Nord. L’ultimo tentativo di reconquista fu la spedizione dell’Invencible armada spagnola, che, se fosse riuscita a invadere l’Inghilterra, avrebbe mutato il corso della storia.
Sul trono inglese sedeva la figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, Elisabetta I, grande massacratrice di cattolici e per questo scomunicata dal papa s. Pio V. Elisabetta dava man forte agli olandesi, protestanti e in stato di perpetua ribellione all’imperatore spagnolo Filippo II. Per giunta, la regina nubile forniva “lettere da corsa” agli avventurieri marittimi inglesi (da cui il termine “corsari”), i quali costituivano una spina nel fianco al traffico spagnolo con le Americhe. Quantunque la flotta spagnola avesse sostenuto il maggior peso (e conseguenti perdite) nella strepitosa battaglia di Lepanto (1571) contro i turchi, nel 1588 l’imperatore madrileno decise di risolvere una buona volta il problema inglese. Che era anche un problema religioso, dal momento che i cattolici perseguitati e gli irlandesi da tempo supplicavano un suo intervento. Ben centotrenta navi spagnole si apprestarono all’impresa, che doveva cominciare il 15 febbraio di quell’anno. Al comando c’era l’ammiraglio Àlvaro de Bazán. Che però fu stroncato da un attacco apoplettico proprio alla vigilia della partenza. Non era facile sostituirlo e Filippo II pensò al duca di Medina Sidonia. Costui nulla sapeva di mare ma era un uomo fidato e poteva avvalersi dei consigli di due esperti navigatori. L’enorme flotta mosse a fine maggio ma incontrò venti contrari e dovette fermarsi nel porto settentrionale di La Coruña fino al 20 luglio. Quando le navi spagnole, preso il mare, finalmente avvistarono il porto di Plymouth, dove era ormeggiata la flotta inglese, fu commesso l’errore fatale, quello che doveva condurre al disastro. I due consiglieri del duca suggerirono di attaccare immediatamente ma il Medina preferì attenersi alle istruzioni ricevute dall’imperatore: raggiungere i Paesi Bassi, caricare soldati spagnoli e poi procedere all’invasione. Così fu sprecata un’occasione irripetibile di distruggere la flotta inglese mentre era all’ancora.
Il duca ordinò di ormeggiare nella francese Calais, per poi costeggiare fino ai porti olandesi. Ma gli inglesi erano ormai in allerta e attaccarono nottetempo il porto francese. Si servirono di brulotti, barche cariche di polvere da sparo mandate a far esplodere le navi nemiche. Riuscirono a colare a picco qualche galeone ma la battaglia vera e propria avvenne l’indomani, presso Gravelines, in uno dei punti più stretti della Manica. I grossi galeoni spagnoli erano zeppi di armati e contavano sugli abbordaggi. Ma le più leggere, e veloci, navi inglesi applicavano la tattica del mordi e fuggi, avvicinandosi, cannoneggiando e subito mettendosi fuori tiro. La batosta per gli spagnoli fu dura. E il peggio doveva ancora venire.
Dei sospirati porti olandesi, alcuni erano inadatti a ospitare una flotta di quelle proporzioni, altri erano finiti nel frattempo in mano ai ribelli. E l’autunno, tempo di burrasche, era alle porte. La via del ritorno era sbarrata dalle navi inglesi e il duca di Medina non ebbe altra scelta che circumnavigare l’Inghilterra e l’Irlanda per rientrare in Spagna da Nord. La lunga navigazione fu tormentata dagli attacchi incessanti degli inglesi, dalle tempeste, dalle malattie e dalla fame, perché le provviste non erano state calcolate per così lunga permanenza in mare. Le rare volte che gli spagnoli riuscivano a mettere piede a terra per rifornirsi almeno di acqua, venivano aggrediti dagli abitanti e massacrati. Delle centotrenta navi partite, solo sedici riuscirono a far ritorno in Spagna. Una catastrofe. Da quel momento la navigazione spagnola nell’Atlantico fu praticamente alla mercé dei corsari inglesi.
Non solo. L’impotenza marittima spagnola rese più audaci i suoi avversari protestanti, inglesi e olandesi, che con i loro leggeri legni presero a passare per Gibilterra sotto il naso dei galeoni spagnoli. Ai quali, data la loro stazza, i mesi invernali impedivano la navigazione. Nel 1596 inglesi e olandesi insieme giunsero a saccheggiare l’importantissimo porto di Cadice, dove per ben due settimane fecero quel che vollero, depredando del loro carico e affondando ben sessanta navi delle Americhe. Due anni dopo, il cattolicissimo Filippo II moriva e con lui tramontava per sempre la speranza che l’Europa tornasse cattolica. Proprio in quel tempo (lo ha ricordato il Corriere della Sera in un lungo articolo dell’agosto 2011) Miguel de Cervantes poneva mano al suo capolavoro, Don Chisciotte, amaro apologo di un mondo che non c’era più e mai più sarebbe tornato. Cervantes aveva partecipato alla battaglia di Lepanto e vi aveva perso una mano. All’impresa dell’Armada aveva preso parte come commissario per gli approvvigionamenti. Nel 1604 il successore di Filippo II d’Asburgo, Filippo III, e il successore di Elisabetta I Tudor, Giacomo I Stuart, firmavano il trattato di Londra ponendo fine alla guerra. Iniziava l’irresistibile ascesa dell’impero navale britannico, la superpotenza che avrebbe sconfitto Napoleone e determinato la politica mondiale fino al 1948.
La lotta tra Spagna e Inghilterra nel Cinquecento non fu solo una questione politica e commerciale, come la vulgata marxista ha insegnato a generazioni di studenti. Filippo II e Elisabetta I erano anche i campioni rispettivamente del cattolicesimo romano e del protestantesimo. Erano i punti di riferimento a cui guardavano, speranzosi, i seguaci dei due credi, in un tempo in cui la religione aveva per la gente un’importanza che oggi stentiamo a comprendere. La tragedia dell’Invencible Armada, vero punto di svolta nelle guerre di religione e di non ritorno per la rivoluzione protestante, fu realmente interpretata dai “riformati” come un “Gott mit uns”, “Dio è con noi”. E l’Inghilterra continuò a perseguitare tranquillamente i suoi cattolici, soprattutto gli irlandesi. È stato calcolato che furono sui settantamila i cattolici trucidati perché tali da Enrico VIII in poi. Cessata la fase del sangue, rimase quella amministrativa, con i cattolici trattati da cittadini di serie B fino a metà dell’Ottocento.
Proprio in quest’ultimo tempo, nel 1846, apparendo a La Salette la Madonna profetizzò ai due pastorelli Melanie Calvat e Maximin Giraud che «una grande nazione del Nord, già protestante, si convertirà, trascinando col suo esempio tutto il mondo ». Maximin specificò poi che si trattava dell’Inghilterra. Le profezie, si sa, lasciano un po’ il tempo che trovano e non si capisce quasi mai quanto i vari veggenti ci abbiamo messo di proprio. Ma oggi siamo in grado di dire che forse l’Inghilterra non si sta convertendo al cattolicesimo, però gran parte del suo popolo sì. Intere diocesi anglicane, vescovi in testa, passano al “papismo” che è un piacere, tanto che la Chiesa di Roma è stata costretta a disciplinarne l’ingresso, torrenziale, con un decreto apposito. Carlo di Windsor, erede al trono britannico, ha più volte dichiarato che quando cingerà la corona abolirà il vetusto divieto ai cattolici di salire al trono inglese. Certo, il legame giuridico tra la Corona e la “chiesa” anglicana è ancora stretto: è la Regina il “papa” inglese e il Parlamento legifera sui dogmi. L’ex premier Tony Blair ha dovuto attendere la sua uscita dalla scena politica per poter diventare cattolico anche formalmente. Ma a Dio interessano i cuori più che le leggi, le quali seguiranno quando il protestantesimo inglese avrà perduto anche la parvenza del fantasma che ormai è. Un’altra “invincibile armata” s’avanza, l’abbiamo vista a Madrid in agosto. Ai piedi del Papa.
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