Banner_Il Sabato del Timone_14 dic 24_1920x280

15.12.2024

/
L’Islam e il terrorismo
31 Gennaio 2014

L’Islam e il terrorismo

Un tentativo di definire il terrorismo. Che è sempre comunque immorale, qualunque sia la causa ideale usata per giustificarlo. Il rifiuto senza riserve del terrorismo come condizione per il dialogo con il mondo islamico.
Che cosa pensa l’islam del terrorismo? Occorre precisare da una parte che cosa si intende per terrorismo, dall’altra chi ha titolo a parlare in nome dell’islam.
Si afferma spesso che ogni definizione di terrorismo è politica, e che chi per una parte è un terrorista per la parte opposta è un combattente per la libertà. Oggi però ci sono definizioni piuttosto precise del terrorismo nel diritto internazionale, in particolare quella della Convenzione internazionale per l’eliminazione dei finanziamenti al terrorismo votata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1999 e richiamata in numerosi testi successivi. Questa convenzione definisce come “terrorismo” le attività non compiute da Stati o da governi che, secondo l’articolo 2 comma 1 «intendono causare la morte o un grave danno fisico a un civile o comunque a chi non prenda parte attiva alle ostilità in una situazione di conflitto armato quando lo scopo di queste attività – ricavato dalla natura o dal contesto – è quello di intimidire la popolazione, o di costringere un governo o un ente internazionale a porre in essere ovvero a non porre in essere un determinato comportamento». Pertanto, dal punto di vista del diritto internazionale, non è terrorismo un bombardamento anche volto contro la popolazione civile da parte di un governo (si tratterà di crimini di guerra, ad altro titolo puniti dalle convenzioni inter-nazionali), in quanto il terrorismo è atto proprio di organizzazioni private. Non è terrorismo l’attacco a una caserma di militari impegnati in una guerra, perché non si tratta di civili non combattenti. Viceversa, le attività di Hamas e della cosiddetta “resistenza” irachena (che sono organizzazioni private) sono atti di terrorismo quando prendono di mira civili, o anche soldati che non stiano prendendo parte attiva a un conflitto armato. Dal punto di vista giuridico, e – come ci ricorda di continuo il magistero della Chiesa – anche da quello morale, è importante distinguere giudizio sul fine e giudizio sui mezzi. Il terrorismo è sempre illegale e immorale, per quanto nobile sia lo scopo che afferma di prefiggersi. Se qualcuno, al nobile scopo di protestare contro il regime nazional-socialista, avesse fatto saltare in aria un ristorante bavarese pieno di pacifiche famigliole tedesche in gita domenicale, avrebbe compiuto un atto di terrorismo, non di resistenza legittima. Il fine non giustifica i mezzi, e solo dopo avere condannato il mezzo del terrorismo come sempre illegittimo si può aprire una discussione sui fini.
Una seconda premessa è che quella musulmana non è una religione organizzata in modo verticale, con una gerarchia che la rappresenta e che ha titolo a parlare in suo nome. La sua organizzazione è di tipo orizzontale: non c’è un’autorità unica – equivalente al Papa per i cattolici – ma una pluralità di persone ed enti a vario titolo autorevoli. Questo non significa, naturalmente, che tutte le opinioni musulmane si equivalgano. Mark Sedgwick distingue fra: madhhab, scuote giuridiche, che paragona alle “denominazioni classiche” protestanti del XX e XXI secolo (ciascuna delle quali non pensa di essere l’unica forma vera del protestantesimo e accetta di coesistere con le altre); firqa (“denominazioni nuove” che escono dal sistema delle madhhab nello stesso modo in cui, per esempio, gli avventisti o la Christian Science escono dal sistema delle denominazioni classiche protestanti); ta’ifa (“nuovi movimenti religiosi” che si formano per innovazione o per importazione e che eventualmente potranno evolvere in una firqa), a loro volta da non confondere con le tariqa del sufismo, sia tradizionali sia di nuova fondazione.
La gran massa dei musulmani fa riferimento a una madhhab, e le madhhab non hanno autorità da tutti riconosciute. Danno grande rilievo ai dotti, agli ulama, e a università particolarmente autorevoli (alcune delle quali, come l’Università al-Azhar del Cairo, hanno professori che appartengono a diverse madhhab), ma nello stesso tempo hanno legami molto stretti con le au-torità statali di alcuni paesi. A rigore l’opinione di uno o più giuristi (fatwa) non è vincolante se non per i loro discepoli diretti, ed è tanto autorevole quanto lo sono coloro che la firmano. Quanto al “fondamentalismo”, le sue dimensioni gli hanno fatto superare la fase di ta’ifa e si tratta per alcuni di una firqa, per altri ormai di una quinta madhhab sunnita accanto alle quattro tradizionali hanafita, malikita, shafi’ita e hanbalita. Si afferma spesso che le cose sono molto più chiare nel mondo sciita dove, a differenza di quello sunnita, c’è un clero con un’autorità gerarchica. È vero: ma il sistema sciita funziona sulla base del primato fra le varie autorità del marja e-taqlid (“fonte di emulazione”), e attualmente una’ buona ventina di candidati rivendicano questo titolo, così che si può anche affermare che ciascuno di essi è ali testa di una “denominazione”, senza dimenticare l’autorevolezza di cui gode la Repubblica Islamica dell’Iran in tutto il mondo sciita.
Applichiamo ora queste premesse alla domanda su che cosa pensa l’islam del terrorismo. Se forme radicali di lotta sono state spesso giustificate nella storia dell’islam, la modalità specificamente suicida del terrorismo è stati giustificata per la prima volta come “martirio” legittimo da autorità sciite – contestate all’epoca da altre sannite -, prima nel contesto della lotta senza quartiere condotta dall’Iran conti l’Iraq di Saddam Hussein, quindi n quadro dello scontro fra gli Hezbollal sciiti del Sud del Libano e Israele. Solo a partire dal 1993 le “operazioni martirio” sono adottate da un’organizzazione sunnita palestinese, Hamas, e ampiamente giustificate da autorità sunnite, che ne approvano anche l’estensione alla Cecenia e al Kashmir.
Molti esponenti autorevoli del mondo islamico hanno condannato Osama bin Laden e l’attentato dell’11 settembre, e non vi è ragione di dubitare della loro sincerità. Ma sono sufficienti queste condanne per concludere, come si afferma spesso, che le più autorevoli voci dell’islam ripudiano il terrorismo suicida di per sé, così che i suoi sostenitori farebbero effettivamente parte di nuovi movimenti religiosi in via di fuoriuscita dall’islam? Le cose non stanno proprio così. L’autorevole shaykh Muhammad Tantawi, rettore dell’università al-Azhar, che ha condannato in modo esplicito bin Laden, ha ripetutamente supportato gli attacchi di Hamas contro i civili in Palestina, e lo stesso è avvenuto per importanti leader di confraternite sufi in Egitto. Nello stesso senso vanno le fatawa sulle “operazioni di martirio” in Palestina di Yusuf al-Qaradawi, un autorevole predicatore residente nel Qatar e frequente ospite della televisione al-Jazira, vicino ai fondamentalisti Fratelli Musulmani ma anche interlocutore di iniziative di dialogo inter-religioso promosse da ambienti cattolici di primo piano, e delle maggiori autorità sciite in Iran. Queste fatawa si basano sul principio secondo cui “l’intenzione è la giustificazione dell’azione”, che tuttavia è interpretato in un senso diverso dalla tradizione islamica classica, e assomiglia molto all’idea secondo cui il fine giustifica i mezzi. Ma non ogni fine: non è stato difficile trovare esponenti musulmani autorevoli per condannare bin Laden (in quanto nel suo progetto di jihãd “globale” lo scarto fra intenzione e azione appare a molti troppo grande), è difficile trovarne per condannare il jihãd “locale” di Hamas o del terrorismo ceceno, che incontrano ben poca opposizione religiosa o giuridica nel mondo islamico, perché i temi dell’attacco a Israele, e alla Russia in Cecenia, sono estremamente popolari.
Le situazioni drammatiche della Cecenia e della Palestina forniscono così il contesto a documenti che cercano di giustificare il terrorismo suicida con riferimenti a una tradizione islamica in cui, in realtà, non trova precedenti classici veramente pertinenti. Ma la porta è stata aperta, e diventa poi difficile chiuderla. Invano ci si affanna a distinguere tra la lotta contro Israele, dove chiunque secondo le fatawa sarebbe un militare almeno della riserva (o un ex-militare, i vecchi, o un futuro militare: i bambini) come lotta eccezionale, che giustifica misure eccezionali, e altri tipi di conflitto. Praticamente tutti coloro che giustificano le “operazioni di martirio” palestinesi giustificano anche quelle cecene. Pochi operano distinzioni quanto al Kashmir. Diventa allora difficile chiudere la porta ad al-Qa’ida in modo veramente convincente. Se l’elemento cruciale è l”’intenzione sincera”, come negarla a priori anche ai militanti di bin Laden? Le incertezze si riflettono nelle opinioni del musulmano medio: secondo un sondaggio (ripreso da /I Foglio del 5 aprile 2004 con il titolo II fronte marocchino) svolto nell’aprile 2004 in Marocco – uno dei pochi paesi islamici dove c’è A una Imd;z;one d; rilevamen’; d’op;n;one liberi e attendibili – il 55% non approva le attività di al-Qa’ida (una maggioranza peraltro non schiacciante), ma il 74% considera giustificati gli attentati suicidi compiuti da Hamas.
Lo sa chi ha esperienze di dialogo con musulmani: anche chi disapprova senza riserve bin Laden e gli attentati dell’11 settembre 2001 e dell’11 marzo 2004 si mostra spesso assai più reticente quando si tratta di Hamas o della Cecenia. Spesso, il discorso è immediatamente sviato sui torti inflitti ai palestinesi e ai ceceni. La risposta è comprensibile, ma sbagliata. Ai movimenti islamici che esitano non si chiede di condannare la causa palestinese o cecena, ma di ripudiare il terrorismo come mezzo di lotta necessariamente criminale, eticamente inaccettabile, degradante sia per chi lo pratica sia per chi ne fa l’apologia, a prescindere dal fine al cui servizio le “ope-razioni di martirio” si pongono. Il test cui sottoporre qualunque movimento islamico per collocarlo esattamente, dopo L’11 settembre 2001, non è la sua posizione nei confronti di al-Qa’ida che molti più o meno condannano. È la disponibilità a condannare – senza se e senza ma, senza fini che giustificano i mezzi, senza giustificazione e non solo senza apologia – il terrorismo suicida come mezzo di lotta (ancora una volta, a prescindere dalla bontà delle cause al cui servizio afferma di porsi), in Palestina come in Cecenia, nel Kashmir come in Algeria. Proprio l’atteggiamento sul terrorismo distingue i musulmani conservatori da quelli fondamentalisti, per cui i terroristi sono “fratelli che sbagliano”, e ultra-fondamentalisti, che approvano apertamente le organizzazioni terroriste. Solo con chi è disposto a pronunciare un no al terrorismo senza riserve, neppure mentali, potrà cominciare un vero dialogo.
DAL CORANO
“In verità, la ricompensa di coloro che combattono Iddio e il suo Messaggero e si danno a corrompere la terra è che essi saranno massacrati, o crocifissi, o amputati delle mani e dei piedi dai lati opposti, o banditi dalla terra”.
(Corano 5,33).

Dossier: Islam. Guerra santa e terrorismo

IL TIMONE – N. 35 – ANNO VI – Luglio/Agosto 2004 – pag. 39 – 41

I COPERTINA_dicembre2024(845X1150)

Per leggere l’articolo integrale, acquista il Timone

Acquista una copia de il Timone in formato cartaceo.
Acquista una copia de il Timone in formato digitale.

Acquista il Timone

Acquista la versione cartacea

Riceverai direttamente a casa tua il Timone

I COPERTINA_dicembre2024(845X1150)

Acquista la versione digitale

Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone

Resta sempre aggiornato, scarica la nostra App:

Abbonati alla rivista