Nel biennio 1943-1945 il nostro Paese fu devastato da guerra civile, bombardamenti e scontri tra soldati di tante nazioni. E quanto alla Resistenza, oggi si sottovaluta il ruolo dei cattolici. Ecco una storia diversa da quella a cui siamo stati abituati
In un ideale album fotografico della nostra Nazione, possiamo riconoscere una continuità dal Risorgimento fino alla Prima guerra mondiale e al fascismo: un paese dove il potere viene detenuto da pochi (spesso senza alcun merito) e rispettato da quasi tutti per l’aura sacrale che lo circonda. La monarchia, soprattutto, chiedeva un’obbedienza e una fedeltà cieche, ben più che religiose, e l’educazione impartita fin dall’infanzia garantiva tutto ciò. Nel 1936 questo Paese, che aveva visto i propri figli morire in guerra in Libia, sul Carso e in Etiopia, festeggiava la fondazione di un impero e, nel 1939, celebrava la vittoria delle proprie truppe nella guerra civile spagnola. La vittoria, si può dire, era davvero presa per la chioma «’ché schiava di Roma Iddio la creò», come Goffredo Mameli ebbe a scrivere nel 1849.
Le foto del giugno 1946 ritraggono un’Italia completamente diversa. La monarchia è finita, esiste una repubblica, i cittadini votano accalcandosi in lunghe file che si snodano tra le case ridotte in macerie dai bombardamenti, mentre Partito Comunista e Democrazia Cristiana si preparano al duello decisivo del 18 aprile 1948. Il cambiamento è davvero epocale.
L’idea “comunista” della Resistenza
Certo, di mezzo c’era stata una guerra mondiale perduta in modo rovinoso, ma non basta per far comprendere un mutamento così radicale e rivoluzionario. Di solito una vulgata progressista illustra questo momento decisivo in pochi tratti: la guerra voluta dal fascismo viene perduta e ciò provoca la caduta del regime, mentre la successiva guerra partigiana porta a compiuta maturazione il desiderio di libertà degli italiani. Una guerra partigiana, va aggiunto, condotta soprattutto dalle forze progressiste mentre i moderati e i conservatori, nonostante qualche eccezione notevole, compiono scelte attendiste, aspettando la fine del conflitto. Da qui il mito comunista di una “vittoria mutilata” e cioè di una rivoluzione incompiuta, fermatasi alla vittoria delle forze popolari sul nazismo e sulla sparuta minoranza degli “sgherri” fascisti.
La conseguenza di una simile versione della storia è intuibile: non ci sarà mai pace fino a quando i legittimi vincitori della guerra contro il nazifascismo non avranno preso il potere che gli spetta in virtù dei meriti acquisiti dalla Resistenza.
C’è da dire che i primi a riconoscere l’esattezza di tale impostazione sono stati proprio i politici moderati, dalla Democrazia Cristiana al Partito della Libertà, da Andreotti a Berlusconi. Se la storia della Resistenza appartiene alla Sinistra, che la utilizza per gli scopi suddetti, ai moderati non resta che un esercizio facile quanto vile: deprezzare, svalutare, infangare la Resistenza in quanto strumento del Nemico.
Questo il quadro complessivo che, però, deve escludere tutta una serie di elementi oggettivi sul biennio 1943-1945: elementi che, se compresi e rivalutati, potrebbero portare a una nuova interpretazione della storia italiana.
Questa oggettività non va ricercata nelle biblioteche, destinate al lavoro dello studioso e dell’esperto. La storia di un popolo non appartiene a chi scrive libri ma al popolo stesso, che ne può ritrovare i segni se soltanto osservi il paese in cui abita con un minimo di coscienza. La Seconda guerra mondiale ha devastato l’Italia da Capo Passero a Domodossola, dal Monte Bianco all’Istria. Dove non ci sono stati combattimenti fra tedeschi e Alleati, vi sono stati bombardamenti micidiali o la guerra civile fra partigiani e soldati della Repubblica Sociale. Chi legga l’indice dei luoghi de Il Paradiso devastato probabilmente troverà il nome di una località alla quale è legata la propria storia individuale, scoprendo il dramma che vi è avvenuto. Un nome per tutti: Ortona. Tutta la città, nel dicembre 1943, fu trasformata in un campo di battaglia dove si affrontarono gli irriducibili paracadutisti tedeschi e gli infaticabili fanti canadesi e, percorrendone le vie, è possibile immaginare cosa avvenne in quella terribile settimana di Natale. A Marina di Pietrasanta, invece, si erge una statua dedicata a un soldato giapponese, Sadao Munemori. Giapponese? E perché giapponese? Perché il 442° Regimental Combat Team era composto da nippo-americani. Il reparto si coprì di gloria durante la guerra al punto che meritò ben 18.143 decorazioni individuali di cui 21 Medal of Honor, oltre a sette citazioni presidenziali. Un’unità straordinaria che resterà, forse per sempre, la più decorata nella storia dell’esercito americano.
I soldati stranieri sul territorio italiano
La guerra in Italia, nel biennio 43-45, ha visto combattere sul nostro territorio, tra le nostre case, fiumi e colline centinaia di migliaia di soldati provenienti da oltre quaranta Paesi, così che la Campagna d’Italia durante la Seconda guerra mondiale rappresenta un unicum negli annali della storia militare di ogni tempo. Stranamente solo gli italiani sembrano ignorare questa evidenza. Basta visitare un cimitero di guerra del Commonwealth (ce ne sono undici solo in Romagna) per rendersene conto. Osservando i simboli incisi sulle lapidi si riconoscono la foglia d’acero, emblema dei canadesi, la felce dei neozelandesi, la gazzella dei sudafricani e i pugnali incrociati dei gurkha.
Certo, gli italiani combattenti erano da ambo le parti, al fronte e dietro di esso, impegnati nella guerra civile, o guerra partigiana che dir si voglia; ma è necessario ricordare i giovani statunitensi, inglesi, canadesi, neozelandesi, sudafricani, francesi, polacchi, brasiliani, indiani, nepalesi, belgi, jugoslavi, greci, senegalesi, marocchini, algerini e di altri contingenti minori, senza dimenticare i volontari della brigata ebraica e i già nominati nippo-americani. Nelle file tedesche, d’altro canto, vi erano anche russi, ucraini, bielorussi, baltici, cosacchi, ungheresi, romeni, slovacchi, polacchi e turkmeni e, tra i partigiani, numerosi ex prigionieri di guerra, soprattutto inglesi, russi e jugoslavi.
Tutti i popoli della Terra, eccettuati gli eschimesi, hanno combattuto qui e non si può ignorarlo per un malinteso patriottismo, come se la guerra contro il nazifascismo fosse stata condotta solo dai partigiani. E proprio la Resistenza andrebbe, finalmente, studiata e valutata non solo da un punto di vista politico ma anche militare, per il semplice fatto che questa era l’ottica di chi combatteva. Seguendo questo criterio, si possono fare scoperte sorprendenti. La prima, per quanto ovvia, è che le prime bande partigiane furono organizzate da militari, soprattutto alpini, sfuggiti alla cattura da parte dei tedeschi. Ne consegue il livello di eccellenza delle formazioni cosiddette “autonome”, organizzate da ufficiali monarchici del Regio Esercito non legate ad alcun partito. Erano i “fazzoletti azzurri” di Enrico Martini “Mauri”, nelle quali militò il grande scrittore Giuseppe Fenoglio. Fu il Piemonte, legittimista, forte di tradizioni militari, cattolico, a dare il maggior contributo alla guerra partigiana, grazie anche alla sua conformazione orografica. Le altre formazioni dotate di notevole efficienza, ben organizzate, basate su una rigorosa selezione dei combattenti furono quelle di “Giustizia e Libertà”. I garibaldini legati al Partito Comunista, a parte eccezioni notevoli, dovettero invece seguire direttive politiche che imponevano di aumentare gli organici a discapito della logistica, dell’addestramento e della qualità. Questo perché i comunisti non pensavano tanto a vincere la guerra in corso quanto a predisporre la futura presa del potere.
I partigiani anticomunisti dimenticati
Ora, che i moderati, specie se cattolici, rinneghino implicitamente i tantissimi partigiani non comunisti o anticomunisti è un delitto che grida vendetta al cielo ed è da questa ignoranza crassa che deriva l’attuale disorientamento politico. Quanti cattolici tra le medaglie d’oro della Resistenza e che testimonianza hanno dato! Non si può dimenticare, uno fra cento, un eroe come Aldo Gastaldi “Bisagno”, il giovanissimo capo partigiano, comandante della divisione “Cichero” in Liguria. Una divisione Garibaldi, si badi, ma con un cappellano militare e una preghiera che merita di essere ricordata: «Vergine Maria, madre di Dio, rendimi un patriota intelligente e onesto nella vita, intrepido nelle battaglie, sicuro nel pericolo, calmo e generoso nella vittoria. Accetta i sacrifici e le rinunce della mia vita partigiana e concedimi di raggiungere, con purezza d’intenzioni, l’ideale che donerà alla Patria, con lo splendore delle antiche tradizioni, l’ebbrezza di nuove altissime mete».
Non si tratta di eccezioni, poiché la gran maggioranza degli italiani era cattolica. Furono proprio quei cattolici che, privati di un governo e di una monarchia, dovettero caricarsi sulle spalle il destino di un’intera nazione.
La stragrande maggioranza dei partigiani combatté una guerra di liberazione contro i nazionalsocialisti e per necessità anche contro i fascisti. Ma è pur vero che anche i soldati di Salò difesero il territorio italiano, respingendo gli attacchi dei francesi a ovest e dei partigiani di Tito a est, e furono in tanti a compiere questa scelta. Lo storico Virgilio Ilari ha calcolato che parteciparono alla guerra circa 643mila militari della Rsi e 463mila partigiani: di questi circa 300mila erano volontari effettivi. Ora il potenziale umano della Repubblica Sociale era di circa 4 milioni di uomini (metà sbandati, metà riformati o esonerati) dai quali va dedotto un altro mezzo milione di individui reclutati dai tedeschi. Il totale dei 300mila volontari raggiunge perciò quasi il 10% del potenziale umano disponibile e quello di coloro che ne presero parte (un milione, come si è detto) fa ascendere la percentuale a quasi un terzo di tale cifra, sempre comprendendo anche riformati o esonerati. È anche da questa partecipazione, da questa voglia di rischiare e di battersi fino in fondo, che l’Italia è rinata.
C’è una sciagurata frase di Bertoldt Brecht – «È sventurato il Paese che ha bisogno di eroi» –, ma è ancora più sventurato un paese che non ha eroi nel momento del bisogno: un momento, ognuno giudichi, che sembra proprio quello attuale.
Per saperne di più…
Alberto Leoni, Il paradiso devastato. Storia militare della Campagna d’Italia (1943-1945), Ares, 2012.
Luciano Garibaldi, I giusti del 25 aprile. Chi uccise i partigiani eroi?, Ares, 2005.
IL TIMONE N. 120 – ANNO XV – Febbraio 2013 – pag. 22 – 24
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl