Augustin e Joseph Lémann erano due gemelli identici. Ebrei e orfani, nati nel 1836 a Lione. Furono cresciuti dagli zii, appartenenti a una delle più importanti famiglie cittadine. A diciott’anni, di nascosto, si fecero cattolici. Ma furono scoperti e perfino picchiati perché tornassero alla religione in cui erano nati. Se la presero anche col prete che li aveva battezzati, accusandolo di plagio. Il caso fece scalpore e i due inviarono una lettera al giornale locale, asserendo che si erano convertiti volontariamente, da sempre impressionati dalla bellezza della liturgia cattolica (quella dei loro tempi, s’intende). Per anni avevano scrutato le Scritture e si erano convinti che Gesù fosse davvero il Messia. Il prete, lungi dal plagiarli, li aveva invitati a un intero anno di riflessione prima di accontentarli. Cacciati da casa, i due fratelli chiesero di entrare in seminario e nel 1889 divennero sacerdoti. Nel giorno in cui il beato Pio IX aveva proclamato il dogma dell’infallibilità pontificia erano stati proprio loro a servirgli messa.
Scrissero molte opere, tutte tese a dimostrare agli ebrei che Gesù era il Messia atteso. Ed erano libri scritti da gente che conosceva bene la religione ebraica e pure il Talmud. Joseph morì nel 1909 e Augustin nel 1915. Nel 1877 avevano pubblicato un lavoro intrigante: Valeur de l’Assemblée qui prononça la peine de mort contre Jésus Christ. La Libreria Editrice Fiorentina lo ha tradotto come L’assemblea che condannò il Messia. Storia del Sinedrio che decretò la pena di morte di Gesù, con bella prefazione del domenicano R. Sorgia.
I due eruditi autori vi hanno ricostruito la storia del Sinedrio e sono riusciti a rintracciare le biografie di ben quaranta dei settantuno membri che condannarono Gesù di Nazaret, dimostrando – non di rado col Talmud alla mano – che si trattava di personaggi quanto meno discutibili. Poi, non sazi, hanno spulciato l’intero procedimento, passo per passo, e vi hanno riscontrato ben ventisette irregolarità, una sola delle quali sarebbe bastata a invalidare il processo. Che si sia trattato di un processo- farsa, tipo quelli staliniani, lo sapevamo dal Vangelo. Ma, poiché gli Evangelisti erano ovviamente cristiani, i loro resoconti si prestavano alla facile accusa di partigianeria. Invece, i fratelli Lémann squadernano le cose utilizzando solo fonti ebraiche, così che quel processo, comunque lo si giri, rimane una tragica buffonata.
Infatti, Nicodemo, Gamaliele e Giuseppe d’Arimatea – gli unici uomini onorati di quel consesso – non vollero nemmeno parteciparvi, sapendo bene che la sentenza era stata scritta in anticipo. Tanto per cominciare, la legge giudaica proibiva i processi notturni. E tra una seduta e l’altra doveva passare almeno un giorno. Vietato fare processi nelle vigilie di festa. Invece, Gesù fu arrestato di notte, subito processato, e riprocessato all’alba, senza soluzione di continuità. Ed era il primo giorno degli azzimi, vigilia – addirittura – di Pasqua. Proibitissimo pronunciare sentenze di morte fuori dalla Gazith o Sala delle Pietre Squadrate, che si trovava nel perimetro del Tempio. Invece, Gesù fu condannato addirittura nel domicilio di Caifa. I testimoni dovevano essere ascoltati uno ad uno e separatamente, invece, come sappiamo, fu fatto il contrario. I settantun membri del Sinedrio dovevano votare, uno per uno, sulla sentenza. Invece, nel caso di Gesù urlarono tutti insieme «a morte!» in una gazzarra da stadio. Il dibattimento doveva iniziare con la produzione dei capi d’accusa e la loro comunicazione all’imputato. Invece, Caifa, che avrebbe dovuto far da giudice, si improvvisa pubblico ministero e, addirittura, interroga personalmente Gesù sulla di lui dottrina. Insomma, non aveva alcun capo d’accusa e chiedeva all’imputato di incolparsi da solo. Infatti, Gesù gli fa notare che, a regola, dovrebbe interrogare quelli che lo avevano ascoltato, avendo lui parlato sempre in pubblico. E si becca un manrovescio da parte di un servo di Caifa (nella cui abitazione, lo ricordiamo, si svolge il “processo”). Gesù, insomma, sa che non hanno niente contro di lui, ma cercano solo di strappargli un’ammissione di colpa. Cosa ridicola, perché nessuno può essere obbligato a testimoniare contro se stesso. Ed è questo il motivo per cui Gesù smette di rispondere, e tace anche con Pilato, che per paura della piazza (e di un eventuale ricorso a Tiberio, che cerca solo una scusa per rimpiazzarlo) si presta alla pagliacciata orchestrata da quel Sinedrio. Gesù apre bocca con Caifa solo per ammettere che, sì, è lui il Messia. Al che Caifa si straccia le vesti, infischiandosene perfino della Legge di Mosè, che vieta espressamente al Sommo Sacerdote perfino di sporcare il suo abito. Com’è noto, l’ammissione di Gesù basta a condannarlo a morte (pronunciata, lo rammentiamo, senza voto individuale).
Ed è qui l’insulto finale alla Legge. Cioè: se uno dice di essere il Messia in tribunale, che cosa devono fare i giudici? Verificare. Andare sulle Scritture e vedere se effettivamente Gesù di Nazaret ha tutte le caratteristiche richieste, sia riguardo al tempo della venuta del Messia (e il tempo era proprio quello, con precisione millimetrica), sia riguardo alla personalità e all’operato dello stesso. Se l’esame risulta negativo, si ha a che fare con un fanfarone megalomane. Se uno così sia degno di morte, è un altro discorso, ma sia pure. Invece, no. Gesù viene dichiarato ipso facto impostore e spedito da Pilato perché esegua. Gesù ha perfettamente capito il gioco di Caifa: se nega di essere il Figlio di Dio viene condannato come impostore, perché ha sempre insegnato il contrario; se ammette, è condannato come bestemmiatore, cosa che puntualmente avviene. Per questo sta zitto per quasi tutto il tempo, realizzando anche in questo le profezie che lo concernono.
Era davvero lui il Messia? Di certo non era uno qualsiasi, e il Sinedrio lo sapeva bene, altrimenti non avrebbe montato un singolare processo, grottesco e straordinario per fretta e furia, imbastito su due piedi in dispregio a tutte le regole e fatto solo per togliere ogni residua scusa a Pilato.
Ma chi siede in quel Sinedrio nell’anno fatale? Ci sono figure come Joazar, sacerdote e figlio di sacerdote. Suo padre si chiama Simon Boeto e fa parte anche lui, insieme ad altri suoi figli, del Sinedrio. È stato sommo sacerdote perché padre di Mariamne, la più bella donna dell’intera Giudea: pur di farla sua, Erode il Grande aveva tolto il sacerdozio a Joshua ben Fabès e l’aveva dato a lui. Anania ben Nebedai (che poi sarà sommo sacerdote e manderà san Paolo a giudizio dal procuratore Felice) è famoso per la fenomenale ghiottoneria e i suoi pantagruelici banchetti. Kelkia, custode del tesoro del Tempio, è colui che versa a Giuda le trenta monete d’argento (regolarmente profetizzate anche nell’esatto ammontare). Tra parentesi: i giudizi qui riportati e pure quei (pochi) che qui riporteremo sono tratti dal Talmud, perché la tradizione giudaica, anche posteriore, non ha alcuna stima di questi uomini. Jonata ben Uziel è lo scriba che traduce tutti i Profeti, tranne Daniele, in quanto la descrizione che questo fa del Messia sembra un ritratto di Gesù di Nazaret. Ismael ben Eliza è il bello del gruppo: un giorno sua madre gli lavò i piedi dopo che fu tornato dalla scuola rabbinica e bevve per venerazione l’acqua del lavacro. Altra parentesi: sono questi uomini a introdurre l’uso di farsi chiamare rabbi («maestro»), un uso che prima non esisteva e che Gesù stigmatizza quando vieta ai suoi discepoli di farsi appellare in tal modo, proprio per distinguerli dal «lievito» di quegli scribi e farisei. Jochanan ben Zachai è colui che dopo la distruzione del Tempio da parte di Tito sposta il Sinedrio a Jafnè. Ma questo non gli impedisce di diventare «uno dei peggiori cortigiani di Tito» stesso, quantunque abbia sentito anche lui, come tutti in Gerusalemme, le voci angeliche provenire dal Tempio e gridare «Usciamo da qui!», e visto, come tutti, la grande porta di bronzo del Tempio stesso (ci volevano almeno venti uomini per aprirla) spalancarsi da sola con grande fracasso. Ultima parentesi: il famoso Velo del Tempio, che si strappò «dall’alto» (notare) alla morte di Gesù, era così esteso e spesso che ci volevano ben settanta uomini robusti per arrotolarlo e portarlo al lavaggio. Di Ben Tsitsit Haccassat il Talmud riporta il fasto esagerato degli abiti e il suo amore per il lusso più sfrenato. Doras diventerà uno dei cortigiani del procuratore Felice, il quale affiderà proprio a lui l’incarico di assassinare il sommo sacerdote Jonathas.
Potremmo continuare con la descrizione delle personalità dei sinedriti, ma ci fermiamo qui per mancanza di spazio. Ma perché ce l’avevano così tanto con Gesù? Non dimentichiamo che, dopo qualche anno, non esiteranno ad acclamare un paio di presunti Messia a mano armata, tra cui quello che causerà la rovina finale di Israele. Contraddicendo in pieno quanto avevano detto di Gesù appena saputo che aveva resuscitato Lazzaro: occorre che un uomo solo muoia per salvare la nazione, sennò i Romani la distruggeranno. «Orbene, l’uomo che stanno per giudicare ha smascherato la loro finta pietà e ridimensionato la pubblica considerazione di cui godevano. Rigetta per di più le prescrizioni abusive che essi vorrebbero mettere al di sopra della stessa Legge; e vorrebbe abolire le decime illegali con cui essi opprimono il popolo». I suoi discepoli sono gente comune, originari di luoghi screditati. E lui usa un linguaggio semplice e diretto, molto lontano dallo stile ricercato e sottile dei «maestri» d’Israele. Infine, disprezza la ricchezza, quando lo sanno tutti che il Messia porterà a Gerusalemme tutti i soldi del mondo e tutti i pagani come schiavi…
IL TIMONE N. 120 – ANNO XV – Febbraio 2013 – pag. 20 – 21
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