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12.12.2024

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L’ombra traduce il mistero
31 Gennaio 2014

L’ombra traduce il mistero

 

 

L’esperienza più frequente del turista estivo che non abbia sciolto tutte le sue brevi ferie sulle spiagge assolate è sovente quella della visita ai centri storici ed ai tesori di arte e cultura che essi racchiudono, e primi tra essi le chiese, le cattedrali, gli oratori che sono parte tanto grande del patrimonio culturale in Occidente ed in Italia in particolare. Ebbene, nell’occasione della sua visita ad una chiesa storica anche il più distratto tra i visitatori avrà fatto caso a una immediata e radicale differenza tra la piazza battuta dal sole che si lascia alle spalle ed il nuovo ambiente del quale ha appena varcato la soglia. La prima differenza manifesta ai sensi è infatti molto spesso una differenza di luminosità: l’interno dell’edificio religioso appare immerso in un’ombra densa, pregna di odori ed altre sensazioni diverse da quelle esterne, non ultima il ristoro della frescura, che in quell’ombra pare trovino un’eco e si facciano quasi palpabili.
Parlare dell’ombra, parlare di ciò che non si vede in un edificio può sembrare un parlare del nulla, ma in verità così non è. È invece parlare di architettura e di ciò che l’architettura racconta dell’ambiente che rappresenta e presenta agli uomini. Nell’itinerario percorso fin’ora attraverso queste brevi note sullo spazio sacro, avevamo l’ultima volta sostato di fronte all’ingresso di una chiesa, ammirandone la facciata e guardando incidentalmente uscire alcuni religiosi con i loro abiti appropriati, ma entrando finalmente nel tempio proveremo la sorpresa che l’ingresso non è solo un passaggio dall’osservazione delle superfici esterne a quelle interne della chiesa, ma è un’esperienza che costringe ad un mutamento delle modalità di percezione, o ad un parziale e momentaneo offuscamento dei sensi se si preferisce. Nello spiegare la ragione ed il significato del chiarore dei cieli e del pallore delle figure umane nella pittura quattrocentesca italiana, un mio vecchio professore narrava della sensazione che poteva esperire l’uomo di allora, quando dalla luce del giorno esterno entrava all’interno di una chiesa ancora priva di illuminazione elettrica, e nell’oscurità che all’improvviso lo circondava, rotta solo dal lume dei ceri, lentamente e faticosamente cominciava a discernere per prima cosa le numerose immagini che a mano a mano si formavano davanti ai suoi occhi, e prima che questi si abituassero a vedere anche la profondità dell’edificio le immagini erano ormai complete alla sua recuperata vista, come se non fossero gli occhi a guardarle, ma esse ad apparire loro, complici i colori chiari e i contorni nitidi.
Simili osservazioni si potrebbero fare per la pittura a fondo oro che aveva a lungo caratterizzato le immagini sacre in Occidente così come ancora lo fa in Oriente. Ma questi sono solo due dei moltissimi esempi dell’uso della luce, o piuttosto dell’ombra, nella storia dell’arte sacra. Vale la pena ricordare ancora almeno Leon Battista Alberti che nel suo celebre trattato De Re Aedificatoria raccomandò che il presbiterio della chiesa fosse lasciato oscuro, poiché l’oscurità aiuta la venerazione, e non è un caso infatti che il termine mistero derivi proprio dal verbo greco μυείω, chiudere gli occhi appunto.
A ben vedere dunque, si può scoprire come nella costruzione dei templi sia stata intenzione comune ad ogni epoca quella di usare l’oscurità per porre una pausa alle sensazioni esterne e una cesura al modo di guardare al mondo, al fine poi di convertire gli occhi ad uno sguardo più lento e attento, il solo adatto ad una corretta percezione in un ambiente umbratile. Così facendo, la poca luce presente aumenta di valore e acquista un senso in relazione agli oggetti che illumina, diventa dunque una luce rivelatrice, vicina alle metafore che da sempre la associano all’intelletto e alla fede, e pronta perciò a simboleggiare la “nuova visione” echeggiata da Joseph Ratzinger nell’Introduzione allo spirito della liturgia.
Questo è ciò che ancora si potrebbe sperimentare entrando nelle nostre chiese, in quelle antiche intendo, se un’illuminazione elettrica stupida e violenta non avesse oggi accecato i sensi e reso ogni luogo simile all’altro. Le chiese nuove hanno invece dimenticato tutto questo, quasi sempre l’occhio vaga ozioso sui loro muri inondati di una luce pari o superiore a quella esterna, una luce che resta profana e non ha una storia da raccontare. Di esse perciò non parlerò, tanto quel turista vi entrerà di rado, a meno che non sia architetto, ovviamente.

IL TIMONE  N. 107 – ANNO XIII – Novembre 2011 – pag. 47

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