L’orientamento del culto cristiano è stato oggetto di forti dispute nel corso degli ultimi cinque secoli almeno. Dopo la riforma liturgica del 1970, i cattolici hanno rischiato di perdere la pratica di rivolgere la preghiera eucaristica verso Oriente, fosse geografico o simbolico, ma le infrazioni a questa vetusta usanza risalgono a tempi precedenti. Dice bene infatti Nicola Bux, nel suo ultimo libro Come andare a Messa e non perdere la fede, che l’opposizione all’orientamento nella preghiera liturgica nasce in ambito protestante. In ogni caso, la questione dell’orientamento non riguarda solo il rituale ma finisce fatalmente per toccare anche l’organizzazione dello spazio, la disposizione dell’arredo liturgico, e perfino l’architettura stessa delle chiese a cominciare dalla facciata. Vediamo perché.
In un mio precedente intervento richiamavo l’idea del pellegrinaggio come fondativa dell’atto dell’andare in chiesa. Certamente il pellegrinaggio è un’evocazione simbolica del cammino del cristiano verso la Gloria futura, e pertanto il pellegrinaggio non si esaurisce con l’ingresso nell’edificio: in esso ha pur sempre una meta transitoria, perché il suo vero traguardo è al di là del suo cammino terreno. Il tempio cristiano in Occidente è sempre servito come esempio, tipo perfetto di un percorso di pellegrinaggio: basti pensare alla presenza della Via Crucis, o alla processione della Domenica delle Palme. In quest’ultima, il cruciferario, dopo le deambulazioni esterne, giunge alla porta della chiesa, ne percuote l’uscio tre volte, e infine accede all’edificio seguito dal clero, dal celebrante e dalla folla dei fedeli; ma il cammino non termina qui: il clero continuerà fino al santuario e infine il solo celebrante salirà all’altare per compiere il sacrificio che Gesù, da solo, compì sul Golgota pochi giorni dopo il suo ingresso a Gerusalemme.
In quest’azione drammatica l’edificio si identifica con la città santa e il percorso che si compie al suo interno è dunque spaziale e temporale insieme: l’avvicinamento al mistero di redenzione vi si disegna come per tappe, attraverso ognuna delle mete che scandiscono la lunghezza dell’edificio, il fonte battesimale, il pulpito, l’ambone, le transenne, l’altare, il tabernacolo. Ognuno di questi elementi, simbolici e funzionali insieme, marcava un passo nell’avvicinamento alla meta celeste. Proprio perché la redenzione si può cercare e impetrare, ma non ottenere su questa terra, proprio per questo l’ultimo passo restava sospeso come davanti alla necessità di un salto, e la meta dell’unione definitiva con Dio era sovente espressa da un’immagine sull’ultima parete del tempio, o semplicemente da una finestra che guarda a Oriente verso il sole che nasce, simbolo di un traguardo che non si raggiunge fin quando si resta attaccati alla terra. Dunque è l’orientamento del rituale che organizzava in maniera, per così dire, drammatica gli elementi che fanno di un edificio un tempio, è l’orientamento che dava al tempio una forma scandendo la successione delle sue parti, cominciando dall’ultima, ed indicandone la fine poteva marcarne l’inizio. In questo articolo sullo spazio sacro, avrei voluto proporre alla vostra attenzione, indulgenti lettori, qualche osservazione a proposito della facciata delle chiese, ma mi son reso presto conto di non poterlo fare senza cominciare dal problema dell’orientamento: in assenza di esso, non può esserci una facciata, perché senza una fine verso cui dirigersi non può esistere l’inizio di un percorso.
Forse è solo un caso che vedere chiese delle quali non è facile individuare l’ingresso, o alle quali manca affatto una facciata, è diventata esperienza comune proprio da quando la preghiera non è più rivolta ad un Oriente, ma preti e fedeli si guardano gli uni gli altri. Forse, invece, è da credere che alcune cause della decadenza dell’architettura sacra cattolica negli ultimi cinquant’anni vadano imputate proprio alla negazione dell’orientamento nella liturgia.
IL TIMONE N. 101 – ANNO XIII – Marzo 2011 – pag. 47