La cultura ambientalista imperante, penetrata anche nella Chiesa, è figlia di una visione negativa della presenza umana, di cui invoca la scomparsa. Solo un cosciente senso di appartenenza al Creatore permette di affrontare in modo realistico ed efficace i problemi ambientali
Il trionfo della secolarizzazione
È il dramma di un mondo secolarizzato, dove avendo voluto allontanare Dio dall’orizzonte si è ormai incapaci di guardare
alla realtà per quello che è. L’equilibrio che si è rotto non è quello della natura, ma quello dell’uomo. E nello stesso tempo anche nella Chiesa si è persa la capacità di generare cultura, con un drammatico cedimento alla mentalità dominante. Ecco così che oggi singoli e comunità cattoliche pensano di affrontare periodi di nubifragi o di siccità diminuendo le emissioni di anidride carbonica (il “mattone della vita” oggi trasformato in sostanza killer) quando per secoli i cattolici – riconoscendo che Gesù è il Signore della natura – pregavano Dio e magari istituivano processioni penitenziali. Ed ecco anche autorevoli esponenti cattolici parlare come un qualsiasi leader del WWF o di Greenpeace.
Tale cedimento culturale è ben rappresentato dalla confusione che si fa intorno ai termini. Da qualche anno, infatti, è diventato di uso comune nella Chiesa parlare o educare alla “salvaguardia (o custodia) del Creato”. Giusto, per carità, ma si usa questo concetto come se fosse l’equivalente cristiano di “difesa dell’ambiente”.
Insomma, l’unico tratto originale del cristianesimo è ridotto a un uso di diversi termini, ma che in fondo significano la stessa cosa.
Invece, “salvaguardia del Creato” e “difesa dell’ambiente” hanno significati diametralmente opposti e, casomai, dovrebbero mettere in risalto la visione anti-umana dell’ecologismo oggi imperante.
Due concezioni opposte
Cosa si intende infatti oggi per ambiente? È la natura che circonda l’uomo, ma dove l’uomo tende a creare problemi con la sua presenza e attività. Si immagina cioè la natura come un meccanismo di per sé in perfetto equilibrio, per quanto delicato.
Così l’uomo dovrebbe rispettare questo equilibrio “muovendosi” il meno possibile, cosa che però non fa. Ed è qui allora che si invoca la mano dura dello Stato che imponga leggi ferree al riguardo (le politiche energetiche legate al clima vanno in questa direzione, ma anche il controllo delle nascite nei Paesi poveri). L’ambiente è perciò qualcosa di sostanzialmente estraneo all’uomo, qualcosa che lo circonda, con cui deve convivere ma che starebbe molto meglio senza presenza umana. Il culmine di questa cultura sta nella famosa “Ipotesi Gaia”, teoria dello scienziato britannico James Lovelock, che si rifà all’antica divinità greca. “Gaia” significa che la Terra è vista come un organismo vivente, che ha in sé tutti gli strumenti per autoregolarsi.
In questo meccanismo perfetto si inserisce l’uomo che la attacca come un virus. Ed ecco allora che la Terra reagisce esattamente come il nostro organismo quando viene attaccato da virus e batteri: con l’aumento della temperatura. Non è un caso che nel linguaggio comune, riferendosi al fenomeno del riscaldamento globale, si usi parlare di “febbre del pianeta”: si indica esattamente questa realtà di un organismo vivente attaccato da un virus.
L’uomo dunque è il nemico, e non per niente si usa correntemente l’espressione «difesa dell’ambiente». Ci si difende perché qualcuno attacca o minaccia. In questa concezione dunque c’è un rapporto conflittuale tra l’uomo e l’ambiente, in
cui l’uomo è ovviamente il cattivo. Prevale una visione prettamente negativa della persona umana, che molto deve anche
all’eredità del protestantesimo. Non a caso, i primi movimenti dichiaratamente ecologisti nascono alla fine dell’800 negli Stati Uniti e nell’Europa del Nord, derivanti dalle Società di Eugenetica, con lo scopo di “conservare” la natura. Creano cioè le riserve naturali, i parchi, aree protette dove l’uomo non può entrare (se non coloro che si autoinvestono del potere di decidere cosa è naturale e cosa no) e hanno lo scopo di guadagnare quanta più natura è possibile, strappandola agli insediamenti umani.
In questa visione entrano anche chiari elementi neo-pagani: così che l’idea di “conservare” si estende all’insieme dell’attività umana, al punto che ai nostri giorni viene ormai considerato un ideale «lasciare il mondo ai nostri figli così come l’abbiamo ricevuto dai nostri genitori». È una visione statica, immobilistica, peraltro tipica anche di tante culture tribali che vedono nel cambiamento – sia esso sociale o della natura – una minaccia, con relativi colpevoli (il malato, il diverso) che devono essere sacrificati per salvare la comunità, la tribù. In questa prospettiva si comprende meglio il perché della paura attuale davanti ai cambiamenti climatici, e i “sacrifici” che vengono chiesti.
La novità cristiana
Nulla di più lontano da una vera concezione cristiana. Il Creato non ha nulla a che spartire con la concezione di ambiente
così come l’abbiamo descritta.
Parlare di Creato vuol dire anzitutto riconoscere che c’è un Creatore, che ha dunque stabilito un ordine e un fine. E l’uomo è il vertice della creazione, tutto ciò che lo circonda è a lui finalizzato.
Tanto che Gesù si è incarnato per salvare l’uomo, non per redimere le anatre o salvare le piante di insalata. Non c’è dunque estraneità o conflitto tra l’uomo e la natura che lo circonda, anche se il peccato originale fa sì che l’uomo possa eventualmente ferire il Creato.
Soltanto la memoria dell’appartenenza a Dio rende l’uomo responsabile nell’uso di tutto ciò che lo circonda e che per lui è stato creato. Per questo, una volta papa Benedetto XVI ebbe a dire che la minaccia più grave per l’ambiente è l’ateismo.
L’equilibrio dunque non sta né nell’immobilismo né in una “scomparsa” dell’uomo, ma nella coscienza che l’uomo ha di appartenere a Dio. Dalla Dottrina sociale della Chiesa si ricava una formuletta che sintetizza questa visione: la natura è per l’uomo, ma l’uomo è per Dio. Il Cantico delle Creature di san Francesco, lungi dall’essere un testo anche lontanamente ecologista, è la perfetta traduzione dell’approccio cristiano: la lode a Dio per tutti i doni ricevuti è proprio il riconoscimento di una Signorìa più grande che spinge l’uomo a usare responsabilmente di tutto ciò che lo circonda. Non
serve uno Stato che terrorizzi sulle terribili conseguenze – perlopiù inventate – dello spreco di risorse, basta riconoscere
che dipendiamo da Dio.
C’è dunque una visione positiva, realistica, sia dell’uomo sia della natura, lontana sia dallo sfruttamento selvaggio delle risorse sia dalla divinizzazione della natura stessa, che sono i due estremi (entrambi ben presenti nella nostra società) tra cui oscilla l’uomo quando perde il riferimento a Dio.
Non prevale perciò la necessità di “difendere” l’ambiente ma di custodirlo, come farebbe un bravo giardiniere con il terreno che gli è affidato. La Creazione non è infatti un dato acquisito all’origine, è un qualcosa a cui l’uomo è chiamato a collaborare con il suo lavoro.
In fondo la storia ce lo dimostra: se è vero che gli uomini hanno provocato anche catastrofi ambientali, non è meno vero che nel corso dei secoli la presenza umana ha reso belli e umanamente godibili tantissimi territori che erano malsani e inospitali. Il giardiniere non “conserva”, ma “sviluppa”, migliora ciò che gli è affidato: mette delle piante, inserisce nuove specie che meglio si adattano a quel particolare terreno, si preoccupa di alimentare il terreno, studia delle possibilità di disposizioni che valorizzino quell’ambiente anche con i colori delle diverse varietà di fiori, e così via.
La definizione di risorsa
Il modo di affrontare i temi ambientali, dunque, dipende in realtà dalla concezione di uomo che abbiamo, e questa a sua volta dipende dal riconoscere o meno il Creatore. Non è una differenza da poco; le conseguenze, anche politiche, sono enormi.
Basti pensare all’attuale ossessione per le risorse naturali, del cui rapido esaurimento è ovviamente accusato l’uomo. Stando all’ecologismo, che oggi domina anche nei testi scolastici, è la Terra che produce risorse che l’uomo starebbe saccheggiando ben oltre il limite che la stessa Terra impone. In questa concezione, dunque, le risorse sarebbero un dato conosciuto, fisso e immutabile, di cui l’uomo può solo prendere atto. Ma la realtà non è così: nel corso della storia, infatti, le risorse sono andate crescendo e diversificandosi.
L’età della pietra non è finita per l’esaurirsi di pietre, ma perché l’uomo ha scoperto i metalli, con cui poteva rispondere in modo più efficiente ed economico ai bisogni che prima soddisfaceva attraverso l’uso della pietra.
Così è per tutto: il petrolio, due secoli fa, non era una risorsa ma casomai un problema; per i vestiti si fa sempre meno ricorso a fibre naturali perché nel frattempo sono stati creati nuovi tessuti in laboratorio, più efficienti ed economici.
E gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito.
Questo vuol dire che non è la natura a definire le risorse, ma l’uomo con la sua creatività e intelligenza. Per cui la prima e vera risorsa è l’uomo, e la possibilità che questa risorsa dia il massimo, a servizio di tutti, sta nell’educazione.
Ma è esattamente il contrario di quello che ci si prefigge con le attuali politiche globali. Convinti che le risorse siano definite dalla natura e perciò “limitate”, si persegue una politica di contenimento dell’uomo: sia quantitativo, con il controllo delle nascite, sia qualitativo, con il freno della crescita e dei consumi.
Così la contraccezione e l’aborto, e presto anche l’eutanasia, tanto per fare un esempio, diventano misure necessarie per salvare il pianeta (meno persone = meno inquinamento = meno sfruttamento della natura). Ma è proprio in questo modo – eliminando cioè la prima e fondamentale risorsa – che si distruggerà l’uomo e con lui la natura. â–
Il Timone – Dicembre 2014
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