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14.12.2024

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Ma questa devolution s’ha da fare?
31 Gennaio 2014

Ma questa devolution s’ha da fare?

 

Il decentramento dei poteri è legato al principio di sussidiarietà, che ha solide radici nella dottrina sociale della Chiesa.
Il 25-26 giugno voteremo sulla “devolution”, termine inglese (in italiano devoluzione, ma l’origine comune è il verbo latino devolvere, tirar giù) che indica il trasferimento di poteri dallo Stato a Enti locali minori. Più esattamente dovremo dire sì NO alla riforma costituzionale della Casa delle Libertà, di cui la devolution è solo un aspetto.
La riforma è stata votata nella passata legislatura i via definitiva dal Senato il 16 novembre 2005, ma senza la maggioranza qualificata di due terzi. Perciò è stato richiesto il referendum confermativo, per la cui validità tuttavia non sarà necessario il quorum. Questo significa che anche un numero ridotto di cittadini potrà decidere sull’assetto del Paese (così avvenne a novembre 2001, quando il 30 per cento di elettori confermò la riforma costituzionale del centrosinistra, approvata di misura in Parlamento). Sulla devolution targata centrodestra sono stati espressi giudizi pesanti, anche in area cattolica (no secco della Fuci e di qualche vescovo, mentre lo storico Pietro Scoppola l’ha definita «scempio» della Costituzione e riforma «devastante»).
In realtà, connesso alla devolution c’è il principio sussidiarietà, ben radicato nella dottrina sociale del la Chiesa: il concetto, poi ripreso da Giovanni Paolo Il, viene infatti elaborato nell’enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI del 1931 «è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare»); ma c’è addirittura chi lo fa risalire all’Esodo, quando Mosè all’uscita d l’Egitto stabilisce la struttura fondamentale del popolo di Israele, basata sulla lega delle dodici tribù. Siamo di fronte non a un dogma di fede, certo, ma una scelta di configurazione del potere politico-amministrativo che ha solide fondamenta nella tradizione ecclesiale. Per approfondire il tema, abbiamo rivolto sette domande a Luca Antonini, ordinario di diritto costituzionale a Padova.

Come nasce la riforma?
Nel 2001, a fine della XIII legislatura, con solo cinque voti di scarto, l’Ulivo approva la sua riforma costituzionale. Da quel momento viene meno il miracolo del 1948, la «Costituzione di tutti» approvata qua si all’unanimità e frutto di un compromesso in nome del bene comune, sostituita da una Costituzione di parte, che cambia radicalmente l’assetto dello Stato. La riforma del 2001 ha creato gravi problemi perché ha decentrato alle Regioni troppo e male. Troppo, perché oggi abbiamo un tasso di decentramento legislativo superiore al Canada. Male, perché sono state decentrate le materie sbagliate e non sono stati previsti i meccanismi per far funzionare una struttura federale. La riforma su cui voteremo è diretta innanzitutto a correggere i difetti della precedente. Non spacca il Paese ma prevede un federalismo ragionevole, riportando al centro numerose competenze e assegnandone altre alle Regioni. E salvaguardando l’unità nazionale.

Cosa prevede la riforma della CdL?
Riportare alla competenza statale le materie impropriamente regionalizzate (in tutto tredici); decentrare ulteriormente materie che sono meglio gesti bili a livello regionale; introdurre quei meccanismi istituzionali (Senato federale) e giuridici (interesse nazionale) che permettono una gestione virtuosa del federalismo; ridurre il numero dei parlamentari (518 alla Camera e 252 al Senato); superare l’attuale bicameralismo, snellendo il procedimento legislativo; rafforzare il potere del governo (premierato).

In che senso la riforma del 2001 ha regionalizzato troppo e male?
Ha per esempio regionalizzato materie come «grandi reti di trasporto e di navigazione» e «distribuzione nazionale dell’energia». Tali materie sono state attribuite alla competenza concorrente, nella quale lo Stato può dettare solo principi fondamentali. Il risultato? Nel caso di una linea ferroviaria ad alta velocità destinata ad attraversare tre o quattro Regioni, ciascuna di queste, per assurdo, potrebbe decidere la misura delle traversine delle rotaie (non è un principio fondamentale e quindi la competenza non è dello Stato).
Lo stesso succede per la «distribuzione nazionale dell’energia»: ogni Regione ha un potere di veto e potrebbe impedire la realizzazione di opere strategiche per il Paese.

Che succede se vince il NO?
Rimane in vigore la riforma dell’Ulivo, che in pochi anni ha creato molti problemi e costi al Paese.
Basti pensare all’esplosione del contenzioso costituzionale. La Corte costituzionale è stata ingolfata dai ricorsi delle Regioni contro lo Stato e dello Stato contro le Regioni. I dati dimostrano come il contenzioso sia esploso man mano che si è consolidato il nuovo assetto. Nel 2002 ci sono state 28 pronunce della Corte sul contenzioso Stato Regioni; nel 2003: 98; nel 2004: 116; nel 2005: 101; nel 2006 (fino ad aprile): 45.

Cos’è precisamente la devolution?
Se da un lato vengono riportate allo Stato materie impropriamente regionalizzate (come abbiamo visto), dall’altro vengono assegnate alle Regioni competenze esclusive ulteriori in: a) assistenza e organizzazione sanitaria; b) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; d) polizia amministrativa regionale e locale. Non è credibile la critica secondo cui si formerebbero sanità di serie A e B e la scuola regionalizzata non fornirebbe l’orizzonte culturale necessario. Quanto alla sanità, è devoluta alle Regioni solo l’assistenza e l’organizzazione sanitaria, mentre rimangono saldamente in capo allo Stato sia il compito di individuare i livelli essenziali delle prestazioni sia quello di determinare le norme generali sulla tutela della salute. Quanto all’istruzione, le Regioni possono gestire solo una piccola parte dei programmi di interesse regionale, mentre vengono mantenute l’autonomia scolastica e le competenze statali in ordine alle norme generali sull’istruzione.

Cosa lega devolution e dottrina sociale della Chiesa?
La riforma della CdL introduce una modifica all’art. 118 della Costituzione, citando espressamente anche la sussidiarietà fiscale: viene quindi rafforzato questo essenziale principio della dottrina sociale. Il nuovo articolo 118 prevede: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni riconoscono e favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà, anche attraverso misure
fiscali». Le parti aggiunte (in corsivo) hanno una rilevanza costituzionale notevole. Nella nuova formulazione appare il verbo «riconoscere», che la Costituzione usa per i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali. Ne derivano implicazioni in molti settori dell’ordinamento, dove la creatività economica e sociale è ancora troppo spesso bloccata.
Soprattutto è importante il nuovo riferimento alla sussidiarietà fiscale, che potrebbe aprire alla possibilità, laddove è tecnicamente possibile, di detrarre i vouchers (si pensi al buono scuola e al buono anziano, introdotti con successo in alcune Regioni) dalle imposte, anche regionali (ad esempio dall’addizionale I rpef) , risparmiando al cittadino di richiedere alle istituzioni quanto fin dall’inizio può rimanere nelle sue tasche. Verrebbe così rovesciata una delle più retrive derive dello statalismo, che ha segnato lo sviluppo del nostro ordinamento dall’unità d’Italia. Da quando cioè non si è più considerato adeguatamente lo straordinario apporto che la creatività sociale, traducendosi in opere, ha dato in termini di servizi, occupazione, sviluppo. Lo stesso vale per la famiglia: la nuova previsione costituzionale imporrebbe una nuova e migliore considerazione fiscale della spesa dei genitori per mantenere ed educare i figli.

È tutto condivisi bile o ci sono dei difetti?
Si poteva fare meglio in relazione al nuovo procedimento legislativo e al Senato federale. Questi aspetti però sono destinati a entrare in vigore a partire dal 2011 e dal 2016. C’è quindi il tempo per assestamenti e correzioni. Sarebbe utile quindi che si aprisse una fase costituente dove si arrivi in modo condiviso a ridisegnare complessivamente le regole del gioco, mettendo fine, una volta per tutte, alla prassi della Costituzione cambiata a colpi di maggioranza.

 

 

 

IL TIMONE – N. 54 – ANNO VIII – Giugno 2006 – pag. 14 – 15

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