Poeta belga oggi dimenticato, premio Nobel per la Letteratura nel 1911. Spirito inquieto e anticattolico, le sue opere finirono all’Indice. Come drammaturgo, produsse opere musicate da Debussy e Sibelius. La fiaba L’Uccellino azzurro è il suo capolavoro
A fine autunno, milioni di foglie cadono dagli alberi per non ricomparire mai più, dato che a primavera altre verdeggeranno sui rami: perché? Chi si ricorderà di noi e dei nostri cari, dopo morti, tra cento anni, quando anche la memoria sarà obliata? Com’è che nel cielo notturno una stella balugina eppure a distanza di anni luce essa è già morta, e noi non arriveremo a vederla spegnersi?
Queste e altre simili domande giungono agli uomini, in qualunque età: gli artisti hanno sempre l’incarico di dar loro voce attraverso la bellezza, mentre gli idolatri o gli ideologi operano a tutta forza per tacitare il canto segreto dei cuori; e se l’arte non riesce a perforare il callo del proprio tempo, tutta un’epoca intristisce e dispera.
Cent’anni fa, alla fine della Belle époque, si credeva di essere sul punto di vincere l’ignoranza, l’infelicità e il dolore idolatrando il Progresso cioè la Scienza e la Tecnica come feticci: la storia ne ha poi dimostrato la mostruosa stupidità. Correva l’anno 1911 quando al poeta belga Maurice Maeterlinck venne assegnato il premio Nobel per la Letteratura con la motivazione che «per le sue molte attività letterarie… ricchezza d’immaginazione e poetica fantastica, rivela, a volte sottoforma di favola, una profonda ispirazione mentre in modo misterioso si rivolge ai sentimenti propri del lettore». Come mai fu scelto? Com’è possibile che, oggi, nessuno più ne conosca il nome?
Il teatro delle marionette
Ai tempi, Maeterlinck godette di ampia fama poiché era divenuto celebre all’improvviso nel 1890, quando in una entusiastica recensione Octave Mirabeau definì l’opera teatrale La principessa Maleine paragonabile a Shakespeare; e così il giovanotto nato vent’otto anni prima a Gand da antica famiglia benestante, campagnola e cattolica, diventava una celebrità della drammaturgia simbolista e decadente di lingua francofona.
Raggiunse l’apice della fama con Pelléas et Mélisande, andato in scena nel 1892 e musicato da Fauré, Debussy, Sibelius e Schoenberg: vi si sondava l’abisso delle sorti umane e della realtà con l’evocazione delle parole. Già ne I ciechi l’umanità era stata descritta brancolante nel buio del mondo, senza possibilità di vedere niente, e i critici teatrali avevano notato come quei personaggi «non pensano né agiscono, ma sentono l’invisibile, l’imponderabile… sono personaggi apparentemente statici, sconvolti da una furia interiore stupefacente… ma che raggiano dal centro stesso della loro anima».
In questa prima stagione, Maeterlinck creò figure manovrate dalle forze del fato quasi come “pupi” legati ai fili del burattinaio. Il suo teatro ebbe allora grande risonanza perché blandiva la società borghese arrendendosi agli ideali del suo tempo, per i quali gli uomini sarebbero nati solamente “per evoluzione” nel tempo biologico, “senza motivo” e dunque in balia di passioni insensate. Ma in parte si ribellava perché, leggiamo ne Il tesoro degli umili (1896), «ci sono migliaia e migliaia di leggi, più potenti e venerabili di quelle passioni; sono leggi silenziose e discrete e lente a muoversi; e possono essere viste e udite solo nel crepuscolo, nella meditazione che ci raggiunge nei momenti quieti della vita».
L’uccellino azzurro
Ad un certo punto, infatti, la tranquillità del mare e la pace delle Fiandre germinarono nel poeta maturo l’opera che rimarrà nella storia della letteratura: L’Oiseau bleu (“L’uccellino azzurro”, Barbès Editore, Firenze, 2011; pp. 226 € 8), una fiaba teatrale in sei atti portata sul palcoscenico da Stanislavskij nel 1908 a Mosca; fu subito un trionfo europeo per uno scrittore che aveva sostenuto che «il poeta dev’essere passivo nel simbolo, e il simbolo più puro è quello che si verifica a sua insaputa».
Infatti, a dispetto delle idee maeterlinckiane oramai tutte irretite nella mentalità positivista, tra materialismo assoluto e spiritualismo vago, L’uccellino azzurro venne scritto per delicata e potente ispirazione. Da allora, tante versioni teatrali, cinematografiche e persino di cartoni animati giapponesi si sono avvicendate.
Il genere è quel fiabesco che Eliade considerava come «lo sperimentare di affacciarsi sull’altro mondo»: due bambini poveri, i fratelli Tyltyl e Mytyl, la notte della vigilia di Natale ricevono in sogno la visita della Fata Beriluna sotto le spoglie della vecchia vicina di casa: c’è una bambina gravemente ammalata e l’unica cosa che può guarirla è portarle l’Uccellino Azzurro; i due devono pertanto partire alla ricerca, accompagnati dallo Zucchero, il Latte, il Fuoco, l’Acqua, il Pane, il Cane Tylo e la Gattina Tylette, ai quali alla fine si unisce anche la Luce. Il viaggio comincia mentre mamma Tyl e babbo Tyl dormono, e dopo che la Fata ha donato a Tyltyl un Diamante che, toccato nel momento del bisogno, “fa vedere”.
Il percorso dei bambini assieme agli otto Elementi si snoda a partire dal Paese del Ricordo, dove i nipotini incontrano i nonni morti, in una scena di straziante dolcezza; nel Palazzo della Notte in cui avviene la prima lotta tra il male e il bene; poi nella Foresta e nel Cimitero, nei quali Mytyl e Tyltyl sperimentano l’ambivalenza e la presenza della colpa. In seguito, ecco i Giardini dove le Grandi Felicità materiali da seducenti sirene si trasformano in Disgrazie, e dove le Piccole Gioie rivelano la prima parte del segreto: «che sulla Terra, proprio a casa propria, si trovano molte più felicità di quante non si creda; ma la maggior parte degli uomini non le scoprono affatto ». Così personaggi e lettori scoprono di non essersi mai spostati, ma che «sono gli occhi che hanno cambiato visione… ora vediamo la verità delle cose».
L’Uccellino Azzurro sfugge sempre. Nel gran finale, che non racconterò, partecipiamo a scene commoventi come l’incontro con l’Amore Materno (il più grande), la Gioia di Vedere Cose Belle, di Essere Giusti, di Capire, della Felicità di Non Capire Niente… o l’incontro con i Bambini Azzurri, ancora in attesa di nascere, e del Fratellino che sarebbe arrivato in famiglia l’anno successivo. Il ritorno a casa, un anno dopo, nel momento in cui il sogno si dissolve, è un addio ma anche un nuovo inizio: Mytyl e Tyltyl si risvegliano alla realtà quotidiana causando nella Mamma la sensazione che… ma il lettore scoprirà da sé il tesoro di questo libretto, che è consigliabile come un’agrodolce strenna natalizia.
Dalla vita delle api, all’intelligenza dei fiori
Maeterlinck fu anche il famoso poeta delle serre floreali e degli insetti: fece epoca il suo Vita delle api (1901), un impressionante affresco ravvicinato di come vive un alveare. Poco dopo scrisse L’intelligenza dei fiori (Pendragon ediz., Bologna, 2011; pp.117 € 15): qui, come nelle sue meditazioni sulla morte, sul cosmo, sull’infinito e sui segreti del mondo, lo scrittore belga si perse nella vertigine della creazione. Al contempo attaccò le dottrine cattoliche perché le riteneva «scientificamente » anacronistiche (ricevendone in cambio la messa all’Indice dei suoi libri, nel 1914), visse una vita privata a dir poco bizzarra e travagliata, naufragò nell’occultismo.
Oggi l’ansiosa, vera, nostalgica galassia di domande che risalta di luce celeste dai libri di Maeterlinck è quasi dimenticata: ma le sue domande erano quelle che gli “spiriti forti” evitarono di porsi. In questo, fu maggiore del suo tempo, non accontentandosi delle risposte tristi della “modernità”; il suo cuore ferito e smarrito aveva, forse, trovato nell’amato conterraneo Ruysbroeck, il mistico fiammingo autore dell’“Ornamento delle nozze spirituali” (1350), la chiave del proprio enigma: «essere feriti d’amore è un segno certo che si guarirà».
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