Francesco viveva, proclamava ed esigeva dai suoi Frati una fedele, totale e indiscussa obbedienza alla Chiesa e al Papa. È questa una delle sue caratteristiche oggi più dimenticate
La Chiesa patisce sempre, ma in alcuni momenti più in altri meno, oltre agli attacchi esterni, anche ribellioni e violenze interne. Accade essenzialmente per due motivi: l’esistenza del seme della discordia, che il Nemico semina a piene mani nel campo del Bene per dividere, e le incoerenze degli uomini di Chiesa. Queste ultime contribuiscono notevolmente al diffondersi di eresie e movimenti di protesta, che fanno leva su una critica di per sé giusta, ma con l’intento non di risolvere il problema in questione, ma di distruggere la Chiesa stessa. Lutero, per intenderci, attaccò la corruzione, reale, di molti ecclesiastici, la crisi della Chiesa della sua epoca, non al fine di restaurare la Chiesa stessa, ma con l’intento di sostituirla con un’altra realtà, o meglio di svuotarla di significato, annullando il concetto stesso di Chiesa (libero esame). Così, in vari momenti della storia – soprattutto nel Medioevo – sono nati movimenti ereticali, millenaristi, gnostici, che hanno fatto spesso leva, per affermarsi, su una critica che aveva un suo fondamento: molti uomini di Chiesa, infatti, vivevano in modo immorale, legati al piacere, al potere, al lusso, generando scandalo e disgusto tra i fedeli.
La leva dello scontento
Questa critica, com’è ovvio, quando aveva motivi reali di esistere trovava il sostegno di parte del popolo, che desidera pastori disinteressati, buoni, fedeli. Nel divampare della ribellione, dello scontro, gli eretici si ponevano così alla testa dello scontento, e lo indirizzavano ai loro fini. Di solito il tradimento della gerarchia veniva utilizzato, sottolineato, dibattuto, al fine di dissolvere, annichilire la gerarchia stessa. Un po’ quello che avviene oggi nel campo della critica alla famiglia: i moderni eretici, i radicali, fanno leva sulle mancanze insite nella famiglia di oggi, per spiegare che non c’è più bisogno della famiglia in quanto tale. Tutti li abbiamo sentiti dire: «quante violenze accadono oggi in famiglia! Quanti stupri di padri sulle figlie!». Non interessa certo, a costoro, nel sottolineare un problema reale, risolverlo: al contrario, della crisi della famiglia vorrebbero servirsi per distruggerla definitivamente. Così gli eretici medievali, più volte artefici di violenze inenarrabili contro l’autorità della Chiesa e dello Stato, hanno cercato di rovesciare ogni gerarchia, in nome di un odio assoluto per la realtà così come Dio stesso l’ha voluta e rivelata.
Licenza di trasgredire
Dove stava la forza degli eretici? Nella capacità di presentarsi come persone virtuose, ascetiche, povere, apparentemente distaccate dal potere e mosse unicamente dall’ideale, in un contesto di povertà e insicurezza generale. Lo storico Norman Cohn (1915-2007) racconta la vicenda di Tanchelmo, fondatore di un movimento rivoluzionario apparso intorno al 1100 «nell’angolo nordorientale dell’Impero», nelle Fiandre. Tanchelmo si atteggiava a profeta, percorrendo le città più instabili dal punto di vista economico: camminava vestito da monaco, poveramente, come un vero asceta, predicando, in un primo momento, «come qualsiasi riformatore ascetico nella tradizione di Gregorio VII» (il Papa che lottò contro la simonia nella Chiesa e che invitò i laici a sollevarsi contro i preti indegni). Di qui il suo successo, la sua popolarità. Piano piano però Tanchelmo, mentre invitava i fedeli a non versare più le decime e auspicava la fine della Chiesa, ne fondò una propria e abbandonò l’ascetismo degli esordi, per atteggiarsi, in «abiti dorati», a sovrano politico e religioso.
Altri gruppi di eretici medievali mescolavano digiuni rigorosi e ascetismo con la negazione di ogni autorità e di ogni legge, arrivando a sostenere la possibilità, per i «giusti », di praticare ogni infamia, dall’adulterio all’orgia. Un famoso flagellante del XIII secolo, per fare un esempio, «dopo ventidue anni di penitenza ricevette da Dio (a suo dire, ndr) l’ordine di gettar via il flagello e altri strumenti di tortura (che lo avevano reso celebre e ammirato, ndr) e di abbandonare l’ascetismo per sempre». Così, «le veglie notturne in preghiera erano finite, era giusto dormire in un soffice letto. Non c’era più da digiunare: d’ora in avanti bisognava nutrire il corpo con i migliori vini e cibi, e banchettare era spiritualmente più importante che comunicarsi…».
Povertà, umiltà e obbedienza
È in questo clima di rivendicazioni ed eresie pauperiste che san Francesco si rivela un grande dono per la Chiesa. Il Poverello fu, infatti, la dimostrazione vivente più perfetta e più manifesta del vero spirito cristiano: spirito di povertà, ma anche di amore per le creature di Dio; di umiltà, quella vera; di obbedienza, e non di orgoglio.
Francesco non fu, come Tanchelmo e mille altri, un demagogo, un rivoluzionario, ma l’uomo chiamato da Dio, secondo il sogno di papa Innocenzo III, a restaurare la Chiesa. La quale, certamente, si trovava in un momento difficile, come spesso è successo nella storia. Francesco la amò e la riconobbe, ugualmente, come sua madre, sempre, in ogni istante della sua vita. Nel bellissimo I poveri nel Medioevo, di Michel Mollat (Laterza, 2001), c’è un paragrafo intitolato: «Tradizione e novità in san Domenico e san Francesco». In esso si afferma che «la loro protesta (dei Domenicani, ndr) si levava contro l’arbitrio dei signori, l’iniquità dei giudici, la durezza dei mercanti e degli speculatori, gli odi all’interno delle famiglie, delle città, dei popoli». E conclude: «Combattevano l’avarizia, l’orgoglio e la violenza, non il mondo, opera di Dio, di cui san Francesco aveva cantato la bellezza e l’equilibrio». Francescani e Domenicani insomma, a differenza degli eretici catari, loro contemporanei, combattevano l’errore e il male negli uomini di Chiesa, non la Chiesa; l’edonismo e la sensualità, non la materia o il matrimonio; la concupiscenza e la brama, non la bellezza del Creato e delle creature.
San Francesco dunque, come testimonia la sua vita, non concepì mai la sua missione contro la Chiesa. Non si atteggiò a profeta solitario. Non ebbe una visione utopica, non perseguì un disegno politico di palingenesi. Anzi, si affrettò a mettersi sotto la protezione del Papa, chiedendo e ottenendo l’approvazione della sua regola prima a Innocenzo III (che concesse un permesso orale), poi a Onorio III (che nel 1223 diede l’approvazione ufficiale): entrambi probabilmente coscienti che l’Ordine fondato dal santo di Assisi sarebbe stato, con la sua radicalità evangelica, l’antidoto alle eresie pauperiste, qualcosa di duraturo e vero, non la solita esplosione di fanatismo chiliasta (che predicava l’avvento di Cristo in terra prima del giudizio finale).
Fedeli all’ortodossia
Così immediata fu la «fortuna» dei francescani nella Chiesa che uno dei primi seguaci, Girolamo Masci, fu eletto Papa con il nome di Niccolò IV il 22 febbraio 1288 (accettò dopo sette giorni l’incarico conferitogli una settimana prima all’unanimità). Senza contare che da una parte Francesco, per tenere il suo Ordine fedele all’ortodossia, «lo pose sotto la tutela del Papato mediante un cardinale protettore» e ordinò ai suoi frati di stare «sottomessi ai prelati e ai chierici di Santa Madre Chiesa» (Guido Vignelli, San Francesco antimoderno, Fede e cultura, 2010), dall’altra i Papi ricorsero subito ai francescani per combattere, sia con la predicazione che giuridicamente, l’eresia.
Su questa fedeltà alla Chiesa tutte le fonti antiche sono concordi. Tommaso da Celano ci riferisce infatti che Francesco «era convinto che, prima di tutto e soprattutto, è assolutamente necessario conservare, venerare e vivere la fede della Santa Chiesa Romana, che è l’unica salvezza per tutti ». La storica laica di san Francesco oggi tra le più accreditate, Chiara Frugoni, pur non esitando a dare in molti momenti una interpretazione del santo un po’ parziale e ideologica, nota più volte nel suo Storia di Chiara e Francesco (Einaudi, 2011), che il comportamento dei frati fu «assolutamente all’interno dell’ortodossia religiosa più piena e di una perfetta obbedienza alla Chiesa, che sempre Francesco si premurò di sottolineare e proclamare». Ben sapendo, si potrebbe concludere, che la Chiesa non è fatta solo di santi, ma anche di peccatori, e che nel contempo ha gli strumenti, dalla dottrina ai Sacramenti, per generare i santi che la riformino, quando necessario, in ogni momento della storia.
IL TIMONE N. 124 – ANNO XV – Giugno 2013 – pag. 44 – 45
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