La chiara posizione della Chiesa e del papa sulla tragica situazione in Medio Oriente
«Vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace! È il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace; mai più la guerra! Mai più la guerra! La pace è un dono troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato». Queste le accorate, ferme parole di Papa Francesco, pronunciate all’Angelus del 1° settembre 2013. Posizione ripresa e sintetizzata il giorno dopo in un lapidario tweet: «Mai più la guerra! Mai più la guerra! ». È in quell’occasione che il Pontefice ha lanciato l’appello per la giornata di digiuno e preghiera di sabato 7 settembre, «vigilia della ricorrenza della Natività di Maria, Regina della Pace»: digiuno e preghiera «per la pace in Siria, in Medio Oriente e nel mondo intero». Appello rivolto non solo ai cattolici, perché la pace è un bene di tutti. La Santa Sede in quei giorni si è espressa con estrema durezza contro l’intervento in Siria, paventando il rischio di una guerra mondiale.
«Mai più la guerra!»
«Mai più la guerra!». Sono le stesse parole di Pio XII nel radiomessaggio di Natale del 1951, in piena guerra fredda, e fatte proprie da Giovanni Paolo II a gennaio del 2003 per scongiurare il conflitto in Iraq; ma la stessa espressione è stata usata anche da Paolo VI e Benedetto XVI in varie occasioni. La Chiesa, soprattutto nell’ultimo secolo, in cui si sono moltiplicati conflitti sanguinosi e si sono compiute efferate stragi su larga scala, non ha mai cessato di alzare alta la voce in difesa della pace. Con estremo realismo e invitando sempre al confronto, al dialogo. Non dimentichiamo la grande sensibilità dei Pontefici su questo tema, a partire da Benedetto XV, che inviò il 1° agosto 1917 la celebre Nota ai Paesi belligeranti denunciando l’«inutile strage», fino al prossimo santo Karol Wojtyla, che nel 1986 convocò ad Assisi un summit fra i responsabili di tutte le religioni per scongiurare la possibilità di uno scontro atomico e poi, sempre ad Assisi, nel 2002, ripeté il gesto dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle di New York. Ora Papa Francesco si è mosso nella scia dei suoi predecessori, con il netto richiamo a quella che per un cristiano è la pace vera, al di là di tanti inutili e velleitari pacifismi (quasi sempre a senso unico). «C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire!», ha affermato. «Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza! ». E poi, sempre all’Angelus del 1° settembre, una precisa indicazione di metodo, che conserva tutta la sua validità in relazione alla drammatica situazione siriana: «Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all’altro come ad un fratello e di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato, superando la cieca contrapposizione». E poi: «Con altrettanta forza esorto anche la Comunità Internazionale a fare ogni sforzo per promuovere, senza ulteriore indugio, iniziative chiare per la pace in quella Nazione, basate sul dialogo e sul negoziato, per il bene dell’intera popolazione siriana».
Che fare?
Alla domanda «che cosa possiamo fare noi per la pace nel mondo?», Francesco ha risposto rifacendosi al “Papa buono”. Nell’anno del cinquantenario dell’enciclica Pacem in terris (pubblicata l’11 aprile 1963) e della “salita al cielo”, poche settimane dopo, del beato Giovanni XXIII, Bergoglio ha citato proprio Roncalli: «Come diceva Papa Giovanni: a tutti spetta il compito di ricomporre i rapporti di convivenza nella giustizia e nell’amore ». Certo, oggi non è più proponibile la famosa copertina della Domenica del Corriere del 29 dicembre 1963 in cui il disegnatore Walter Molino raffigurava Giovanni XXIII e John Kennedy, il presidente degli Stati Uniti assassinato a Dallas, mano nella mano, di spalle, che camminavano in un campo come “seminatori di pace”. Roncalli morì il 3 giugno di quell’anno e il presidente americano il 22 novembre. L’attuale inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, che pur si fregia del Nobel per la Pace conferito nel 2009, e che il giorno dopo l’elezione di Francesco si dichiarò «ansioso di lavorare con Sua Santità per portare avanti la pace», appare piuttosto distante da Bergoglio, secondo cui «non è la cultura dello scontro, la cultura del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma la cultura dell’incontro, la cultura del dialogo, unica strada per la pace». Mercoledì 4 settembre, nella prima udienza generale in Piazza San Pietro dopo la pausa estiva, ha ricordato che «la pace comincia nel cuore». C’è questa chiarezza in chi ha in mano le sorti dei popoli e delle nazioni?
Interessanti, da registrare, due prese di posizione di autorevoli rappresentanti cristiani del Medio Oriente, preoccupati della pace ma anche della presenza cristiana in quella martoriata regione del globo: il cardinale Louis Raphael I Sako, guida della Chiesa cattolica caldea dell’Iraq, e monsignor Georges Noradounguian, Rettore del Pontificio Collegio Armeno. Quando nel 2003 gli Stati Uniti guidarono la coalizione di alleati contro Saddam Hussein, Sako era parroco dell’enclave cristiana di Mosul; da allora, ha sempre conservato negli occhi le scene di immane distruzione e le lacrime che ogni guerra trascina con sé. «Ritengo sia sempre possibile un dialogo coraggioso che cerca il bene comune e coinvolge tutti», sostiene. «La soluzione deve essere politica e non militare. La guerra è sempre male, complica la situazione e non risolve nulla. Un Paese neutrale o un gruppo di politici o capi religiosi possono organizzare tale incontro. L’intervento militare ha sempre come conseguenza l’uccisione di tanti innocenti e la rovina di infrastrutture e case, con conseguenze imprevedibili. I cristiani della regione sono una minoranza che vuol vivere in pace e nella stabilità; hanno imparato sulla propria pelle che le Primavere arabe portano guai e non riforme, e i fondamentalisti approfittano della situazione per applicare la legge musulmana, la sharìa. Si comprende perciò perché per loro un dittatore è meglio di un regime religioso chiuso, che non accetta e vuole eliminare gli altri».
Ancor più duro nel giudizio monsignor Noradounguian, che mette l’Occidente di fronte alle proprie responsabilità. «L’Occidente è sensibile a concetti come libertà, democrazia, terrorismo», afferma. «Ma di questi sacri concetti si abusa, e ci si accorge troppo tardi che l’appoggio dato a guerre per la libertà e la democrazia alla fine raggiunge obiettivi opposti.
Così, per paradosso, da quando è stata dichiarata la guerra contro il terrorismo, quest’ultimo si è diffuso ancor maggiormente ». Occorre perciò «un serio esame di coscienza, che rilegga le guerre dell’ultimo ventennio e colga la lezione», spiega monsignor Noradounguian. «Sono state guerre coerenti nei loro obiettivi e risultati? L’Iraq, per esempio, è libero e democratico? Non ci sono più vittime? Le vittime della guerra in Iraq dopo la caduta del regime sono minori che ai tempi di Saddam?». Precisa: «Non sono a favore delle dittature. Ma la mia domanda da cristiano è: un milione di vittime e la destabilizzazione di un Paese [circostanza che rischia di ripetersi, ndr], è veramente l’unico mezzo e l’unico costo da pagare per liberarsi di un dittatore? Un’altra domanda da porsi: cosa c’è prima, il diritto alla vita o il diritto alla libertà? Sono state sprecate tante guerre con tante vite umane per la libertà… Non ci sono vite più care di altre. La vita di tutti è cara al Creatore. I cristiani non si sono trovati davanti a scelte migliori da fare, ma si trovano davanti a dure realtà». L’amara conclusione: «Dove sono finiti i cristiani della Turchia? I cristiani dell’Iraq dove sono? I cristiani dell’Egitto dove sono? Cosa stanno vivendo? I cristiani della Siria vedono guerre assurde, bugiarde, che portano alla destabilizzazione e alla distruzione delle loro case, obbligandoli a emigrare verso destinazioni ignote per ricominciare la vita dal nulla abbandonando la loro storia, la loro cultura, la loro identità cristiana, il loro lavoro».
IL TIMONE N. 126 – ANNO XV – Settembre/Ottobre 2013 – pag. 16 – 17
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