Edessa (oggi Urfa o Sanliurfa, in Turchia), metropoli del regno e poi provincia romana dell’Osroene al confine con l’impero persiano, fu un fiorente centro di cultura aramaica e del cristianesimo siriaco. Se ne fa risalire l’evangelizzazione al tempo del re Abgar V, contemporaneo di Gesù, come narra Eusebio di Cesarea nella “Storia ecclesiastica” (I,13). A Gesù il re avrebbe scritto per chiedergli la guarigione da una malattia e offrirgli l’ospitalità nel proprio regno. Nella lettera di risposta Gesù avrebbe promesso l’invio, dopo l’Ascensione, di un discepolo per guarirlo.
Col tempo il racconto si fece più ampio: Gesù avrebbe promesso l’incolumità a Edessa nella sua lettera, scelta intanto come palladio della città, e si sarebbe asciugato il volto con un telo, imprimendovi le proprie sembianze e inviandolo ad Abgar V tramite il messo regio o l’apostolo evangelizzatore Taddeo.
Di Edessa cristiana il primo simbolo è la lettera di Gesù ad Abgar V, alla quale si aggiunge poi l’icona con “il ritratto del Salvatore fatto mentr’Egli era in vita” (Mosé di Khorene). Un’icona nota in epoca bizantina come achiropita, cioè non dipinta da mano d’uomo, anche per distinguerla dagli idoli pagani, fatti invece delle mani dell’uomo (mortali opere facta). Un’icona su due supporti: l’originale su un telo doppio ripiegato quattro volte (rakos tetradiplon) e la copia su una tegola (keramion) delle mura di Edessa. Si credeva che la copia si fosse formata per contatto con l’originale, occultato per secoli in una nicchia protetta dal keramion. All’icona, custodita nella cattedrale fatta edificare dall’imperatore Giustiniano, si attribuiva la scampata conquista sassanide della città nel 544.
Dal 639 Edessa cade sotto il dominio islamico, che salva l’immagine dagli iconoclasti bizantini. Da allora in poi essa è detta Mandylion, dall’arabo mandil, asciugatoio, forse anche per l’idea, cara allo storico musulmano Mas’udi, che si trattasse del telo usato «per asciugare Gesù Nazareno quando uscì dalle acque del battesimo». Tra il 730 e il 787 l’iconoclasmo, o iconoclastia, lacera la Cristianità: gli imperatori bizantini vietano perché idolatrico il culto delle immagini sacre, delle quali ordinano la rimozione e distruzione. L’iconodulia, la dottrina favorevole a tale culto, prevale anche grazie al Mandylion, prova eminente della sacralità della tradizione iconodula.
I devoti del Mandylion lo sono anche delle icone, specie nei patriarcati d’Alessandria d’Egitto, Gerusalemme e Antiochia, liberi dal giogo bizantino perché soggetti all’arabocrazia. L’esaltazione del Mandylion raggiunge e convince anche i papi che, attenti alle voci di san Giovanni Damasceno e dei tre patriarchi orientali melchiti, la diffondono in Occidente, prima della ratifica nel secondo concilio di Nicea (787) col breve trionfo dell’iconodulia. Il secondo iconoclasmo (815-843) si chiude col nuovo richiamo al Mandylion da parte dei tre patriarchi e del loro concilio gerosolimitano dell’836. La loro supplica all’iconoclasta imperatore Teofilo prelude al definitivo trionfo dell’Ortodossia (843): di uno di loro, l’antiocheno Giobbe, perché filoarabo, le fonti bizantine avrebbero frainteso e radiato il nome. Cent’anni dopo avviene la traslazione del Mandylion a Costantinopoli, in seguito alla vittoria del generale bizantino Giovanni Kourkous sull’emiro di Edessa e all’autorizzazione del califfo abbasside, al Muttaqi, previo assenso di un’apposita commissione. I Bizantini, in cambio, liberarono 200 prigionieri, versarono 12.000 pezzi d’argento e si ritirarono dalla regione di Edessa. Ma gli Edesseni si opposero e solo per ordine del califfo consegnarono l’originale del Mandylion al vescovo Abramo di Samosata, capo della delegazione bizantina.
In solenne processione il Mandylion fu portato a Costantinopoli (oggi Istanbul), ove, il 15 agosto 944, festa della Dormizione (KoimÄ“sis) della Vergine, fu accolto dagli imperatori Romano I Lecapeno (919-944) e Costantino VII Porfirogenito (913-959) e traslato l’indomani nella chiesa palatina della Theotokos del Faro: il 16 agosto divenne festa della “Traslazione dell’icona achiropita del Signore Nostro Gesù Cristo, cioè del S. Mandylion, da Edessa a Costantinopoli”, a complemento di quella mariana della Dormizione, seconda Pasqua per l’Ortodossia.
A Costantinopoli il tesoro delle reliquie edessene fu al completo con la traslazione del Keramion nel 968 e della lettera di Gesù ad Abgar V nel 1031.
Il Mandylion si presta a una identificazione con la Sindone, ripiegata in modo da presentare il riquadro col Sacro Volto, già riprodotto in una diffusissima iconografia. L’eventuale immagine intera
dell’Uomo della Sindone sarebbe stata inconsueta per i cristiani d’Oriente, devoti più del Christus triumphans che non del Christus patiens. Nell’omelia per la traslazione del 944 Gregorio, referendario della Grande Chiesa di Costantinopoli, Santa Sofia, accoglie da una tradizione edessena l’idea che al Getsemani Gesù, asciugati sudore e sangue con un telo, lo avesse segnato
col “riflesso del soprannaturale splendore delle sua figura” e destinato ad Abgar V tramite gli apostoli Tommaso e Taddeo. Gregorio aggiunge: «Il riflesso del soprannaturale splendore è stato impresso dalle sole gocce di sudore dell’agonia del Volto del Principe della Vita, che stillavano come grumi di sangue, e dal dito di Dio. Proprio tali gocce hanno colorato la vera Impronta di Cristo, perché anche questa, dopo che esse erano colate, è stata abbellita dalle gocce del suo costato. I due elementi sono dottrinalmente istruttivi: sangue e acqua là, qui sudore e figura». Per lui quindi il Mandylion è una reliquia della Passione, sia del Getsemani sia della Crocifissione: una reliquia che, dato il richiamo al sangue sul Sacro Volto e alle ferite del costato, può corrispondere alla Sindone o trovarsi a questa vicina.
Il Mandylion fu aggiunto alle altre reliquie della Passione nella Theotokos del Faro e qui raggiunto dalla copia su tegola nel 968. Forse tornò a essere mimetizzato con essa, come “vero ritratto” di Gesù secondo la tradizione e i concili, o ne fu distinto come “sindone teofora”. Nel 1201 il custode della chiesa, Nicola Mesarites, salvò dai rivoltosi anche «le sindoni di lino non costoso, ancora odoranti di mirra e non deteriorabili per aver avvolto il corpo nudo e di tenue figura del Morto dopo la Passione». Quella “impressionata” dall’alone del cadavere ignudo poteva essere la Sindone propriamente detta. Egli segnalava pure il Mandylion su telo e tegola, custoditi in due diversi vasi d’oro a detta di Robert de Clari (1204).
Questi inoltre colloca nella chiesa di Santa Maria delle Blacherne la sindone “in cui fu avvolto il corpo di Nostro Signore” e che ne mostrava la figura intera nell’esposizione settimanale del venerdì. Se davvero nella Blacherne e così esposta, essa era piuttosto una copia, una imago pietatis. Con la quarta crociata gran parte delle reliquie di Costantinopoli fu trafugata o scomparve.
Forse la Sindone fu per qualche tempo custodita nel nuovo ducato latino di Atene dei de La Roche. â–
Per saperne di più…
G. Morello – G. Wolf, Il Volto di Cristo, Electa, 2000.
G. Wolf – C. Dufour Bozzo – A. R. Calderoni Masetti, Mandylion. Intorno al Sacro Volto, da
Bisanzio a Genova, Skira, 2004.
M. Guscin, The Image of Edessa, Brill, 2009.
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