Una vita passata in fabbrica, autodidatta, appassionato all’uomo, cercatore di verità, saggio maestro, nella fede cattolica ha trovato la ragione del suo vivere. Ricordo di un intellettuale cristiano.
Mario Marcolla ha lavorato per una vita in una fabbrica tessile, da garzone a operaio a caporeparto: eppure nel 1968 troviamo la sua firma sotto articoli di teologia e filosofia pubblicati sulla terzapagina de L’Osservatore Romano. Marcolla non poté compiere un corso di studi regolare, perché dovette lavorare come fornaio già a quattordici anni: ma dal 1966 scrive sulla prestigiosa rivista Studi cattolici.
Un autodidatta, privo di titoli accademici, che diviene pubblicista e poi tiene stretti contatti con gli esponenti del conservatorismo statunitense e infine è consulente di un grande editore, è perlomeno una figura inconsueta nel copione teatrale della carta stampata italiana. Che cosa è dunque accaduto, per che furon le leggi dell’editoria sì rotte?
Per capire, dobbiamo fare qualche passo indietro e prestare attenzione a una storia del Novecento, a una vita messa alla prova, come tante, e però resa unica in alcuni suoi aspetti. Di origini trentine, Marcolla nacque nel 1929 a Rivoli presso Torino, dove la sua famiglia si era trasferita in cerca di lavoro. Nella sua autobiografia filosofica dal titolo Una vita in fabbrica (Minchella, 1998), l’autore definì quegli anni “il mondo dei poveri” e raccontò la propria dura giovinezza in pagine commoventi per dignità e semplicità: scrisse infatti che “esser nato povero è la condizione più comune di questo mondo”, ma i suoi ricordi assumono una tinta indimenticabile quando si nota che il Nostro nacque “in una famiglia che portava il ricordo di una vita meno dura”. Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria, diceva il poeta: questa è forse la nota dominante di tutta l’esistenza di Marcolla, l’impronta prima da cui originò l’intera sua riflessione filosofica.
Sì, perché l’operaio autodidatta giunse, in virtù di un impetuoso desiderio di sapere e di una tenacia incrollabile, a conoscere la filosofia e a sviluppare in proprio alcune tematiche filosofiche non trascurabili: argomenti di filosofia politica, innanzitutto, con l’idea di uno stato giusto nell’epoca moderna della secolarizzazione della Chiesa; argomenti di antropologia filosofica come la riflessione sulla condizione del lavoratore nell’età delle macchine; infine questioni di teologia, contro le derive nichilistiche postconciliari dei cosiddetti “teologi della morte di Dio”.
La vita? Un tessuto di incontri
Tutto questo Marcolla studiò, approfondì, discusse, dibatté negli spazi offerti da giornali e riviste. Ma come ci era arrivato? Semplicemente, conoscendo gli uomini. Il suo metodo era quello dell’incontro con le persone e dello scontro con le opinioni.
Benché ostacolata in mille maniere, la via della conoscenza dalla fabbrica alla filosofia fece di lui un intellettuale vero, alla stregua di altri irregolari del XX secolo: troppo giovane per combattere nella Seconda Guerra Mondiale, partecipò al clima rovente del Dopoguerra parteggiando per la Destra tradizionalista; qui incontrò il fascino oscuro del pensiero di Nietzsche e di Evola e, messa in secondo piano la fede con cui era cresciuto, scese negli abissi del “lato oscuro della modernità”. Lesse la Filosofia della Storia di Hegel, accostandosi all’attualismo gentiliano, all’opera omnia di Lenin (nell’edizione italiana stampata a Mosca nel 1944): divorò i volumi di Gramsci e Trotskj. Restano, di quegli anni, tenaci amicizie: con Giano Accame, Fausto Gianfranceschi, con Alfredo Cattabiani. E incontri non irrilevanti: con don Gianni Baget Bozzo, Primo Siena, Ennio Innaurato, Marcello Croce.
Mentre le sue mani, nel turno di lavoro di notte, intessevano la trama e l’ordito del tessuto, la sua vita prese forma e vigore dall’intreccio di tanti rapporti: fu allora che Marcolla si avviò ad approfondire quello che sarà il suo campo di competenza privilegiato, la storia del pensiero conservatore in America. Conobbe Thomas Molnar e invitò in Italia lo scrittore Russell Kirk (1918-1994), il massimo esponente di quella corrente, divenendogli amico.
Ma l’incontro decisivo avvenne nel caffè torinese nel quale con gli amici si ritrovava a discutere di filosofia e politica: una sera Augusto del Noce (1910-1989), il massimo filosofo della politica nel secondo Novecento, dopo aver conversato con quei giovanotti, invitò Marcolla nel suo studio e gli mostrò un libro ancora in bozze, con le pagine sparse a mucchietti, a capitoli, qua e là per la stanza; i due passeggiarono sui sentieri tra i fogli; Del Noce illustrò a Marcolla il problema dell’ateismo. Fu l’inizio di un rinnovamento.
I frutti del telaio
Correva l’anno 1960: per il trentenne che, una volta libero dal turno di notte, si metteva a studiare filosofia, storia, politica, teologia, si aprì un orizzonte differente, la prospettiva cattolica. Nel 1962 Marcolla accolse il suo nuovo destino; trasferitosi a Monza per lavoro, fece esperienza diretta di che cosa fosse la fede vissuta: nelle pause del lavoro in fabbrica, le colleghe recitavano il rosario.
Il matrimonio, la famiglia, i quattro figli sono i primi doni. Mentre Marcolla incominciava a raccogliere i tanto attesi frutti culturali del suo personalissimo “telaio” culturale: quando nel 1970 nasce la famosa collana dell’editore Rusconi, l’amico Cattabiani chiama Marcolla a curare due importanti libri: Il mito del mondo nuovo di Eric Voegelin e La meccanica della rivoluzione di Augustin Cochin. Sono per lui gli anni d’oro: l’amicizia con Rodolfo Quadrelli scrittore, e con Emanuele Samek Lodovici filosofo, confortò e spronò a un alacre impegno negli anni bui del terrorismo e della “notte della repubblica”.
L’ultimo Marcolla fu un paterno e generoso maestro per tanti giovani che oggi operano nel campo minato della cultura. Collaborando a Il Sabato, con Avvenire, e sulle prime annate di Tempi, seppe instradare tante energie: ebbe tra l’altro il merito di far scoprire al pubblico italiano la narrativa dell’americana Flannery O’Connor e, viceversa, di introdurre negli USA i libri di Eugenio Corti. Nel 1998, il dominatore della filosofia laicista, Norberto Bobbio, incuriosito da una vicenda biografica tanto singolare, ebbe un lungo colloquio con lui. Infine, nel ’99 e nel 2001 venne calorosamente accolto al Meeting di Rimini come ospite e testimone di una passione tenace per la verità in un secolo terribile.
Quando muore, nell’ottobre del 2003, lascia una folta eredità di affetti e di gratitudine; un libro di saggi che vedrà la luce postumo e un itinerario filosofico di parole pagate a caro prezzo, il cui messaggio complessivo è ora chiaro: su ognuna di esse, grazie all’amore di Dio, Marcolla vi aveva scritto un pacato ma speranzoso “arrivederci”.
RICORDA
“L’itinerario spirituale in questo epilogo che il Signore conserva per il bene e la gioia della famiglia e dei miei vecchi e nuovi amici, si salda con tutta la mia vita; il fare duro e spesso doloroso e il pensiero maturato attraverso una contemplazione ininterrotta della realtà diventano un’unica vicenda che l’esperienza religiosa trasvaluta e redime dalle imperfezioni dell’orgoglio e della superbia.
I nuovi maestri della fede, il beato José Maria Escrivà de Balaguér e monsignor Luigi Giussani mi offrono il conforto di una visione che incardina oggi i cristiani a una speranza nuova. Così la mia vita si rinnova negli altri e scorge la via del compimento. […] La vita, tutte le vite, lunghe o brevi che siano, sono come un’ascesi ininterrotta tra gioie e dolori. Il significato di ogni esistenza si trasfigura nella memoria e raccoglie i frutti di tutti gli incontri che nel tempo diventano un unico incontro con il destino e con quella Persona, la quale, duemila anni orsono, irruppe nella Storia per redimerci e salvarci. Anche se mala tempora currunt, nelle case, nelle strade e nella società tutta molti cuori ardono nell’attesa”.
(Mario Marcolla Una vita in fabbrica, Minchella Editore, Milano 1998, pp. 99-100)
IL TIMONE – N. 29 – ANNO VI – Gennaio 2004 – pag. 50 – 51