Fu consapevole della necessità di presentare la verità a chi aveva deviato o non credeva.
Ma il suo intento sinceramente apologetico presenta anche limiti e lati oscuri.
Cattolico convinto e praticante, cresciuto in una famiglia profondamente religiosa, lettore attento e partecipe, fin dalla giovinezza, di autori caratterizzati da una – forte tensione spirituale, il francese Maurice Blondel (1861-1949), che fu e si sentì per tutta la vita un professore di filosofia, avvertì con una sensibilità particolarmente spiccata un problema che è risultato costantemente presente e vivo all’interno del pensiero di ispirazione cristiana fin dalle origini: ovvero quello concernente il rapporto che può e deve intercorrere tra la fede e la speculazione filosofica; problema che, colto nelle sue più ampie e diverse implicazioni, va a coinvolgere questioni di enorme portata, come quella, davvero decisiva, della relazione tra ragione e fede, tra «naturale» e «soprannaturale», tra uomo e Dio.
Fin dall’epoca degli studi universitari presso la Scuola Normale Superiore di Parigi, tale problema si presento a Blondel sotto la forma del confronto fra tradizione cattolica e sapere laico: da quel momento il compite che egli avvertì fu quello di elaborare una prospettive filosofica capace di salvaguardare le legittime e imprescindibili esigenze proprie di quei due ambiti, nella convinzione – per certi aspetti mutuata dall’«irenismo» dell’amato Leibniz – che fosse opportuno e possibile trovare un punto di unione e di accordo tra la verità religiosa e l’esercizio libero e responsabile della ricerca filosofica.
Dunque, la prospettiva lungo la quale intese procedere Maurice Blondel fu quella dell’apologetica, seconde una predisposizione palesata a partire dagli studi liceali e dalla scelta di frequentare la famosa Ecole Normale, come egli stesso ci fa sapere: “Già allora la mia aspirazione era quella di imparare a conoscere lla condizione interiore dei nemici della fede per avere su di essi una influenza più efficace […] mi sembrava che questa scuola […] fosse il cammino da intraprendere in accordo con i miei propositi, per armarmi nei confronti di coloro ai quali volevo presentare la verità per ottenere una conoscenza più approfondita e diretta di coloro che hanno deviato o di coloro che sono autenticamente non credenti, i cui pregiudizi volevo dissipare, secondo il mio sogno giovanile, parlando la loro stessa lingua”.
È possibile affermare che tutto il lavoro blondeliano si sia svolto nella sostanziale fedeltà a questo programma: anche la cosiddetta seconda fase del suo itinerario speculativo può essere interpretata come una rielaborazione e una precisazione di temi e problemi già affrontati e discussi nelle opere giovanili – soprattutto ne L’azione e nella Lettera sulle esigenze del pensiero contemporaneo in materia d’apologetica e su metodo della filosofia nello studio del problema religioso – e riconducibili alla preoccupazione apologetica che guidò Blondel e che fu pure all’origine di alcune controversie nelle quali egli si trovò coinvolto, proprio perché tale preoccupazione lo costrinse a ricercare continuamente un faticoso equilibrio fra le più genuine istanze della fede e della tradizione cattolica e le pressanti esigenze della cultura moderna. A questo proposito, non è difficile comprendere le non poche difficoltà alle quali andò incontro Blondel al momento della grave crisi modernista, lui che, fra l’altro era legato da forti vincoli di stima, amicizia e collaborazione a Lucien Laberthonnière (1860-1932), i cui scritti vennero condannati dal Sant’Uffizio: il cosidetto «metodo dell’immanenza» blondeliano, finalizzato a elaborare una proposta di fede attenta alle esigenze del soggetto, apparve ad alcuni un chiaro cedimento di fronte alla mentalità laica tipica della modernità. In quel frangente, Blondel scelse la strada della prudenza e del silenzio.
Nel suo capolavoro L’azione, Blondel si pose l’interrogativo fondamentale sul senso della vita, e intese “ricostruire la realtà totale in tutti i suoi gradi sulla base di un unico motivo dialettico”. Per raggiungere questo fine, egli ritenne necessario analizzare l’azione, considerandola il cuore stesso dell’esistenza umana e connettendola alla volontà, la quale si trova, a suo giudizio, in costante tensione fra ciò a cui aspira e ciò che riesce effettivamente a realizzare: si tratta di una tensione che, generando insoddisfazione, spinge incessantemente l’uomo ad agire e gli fa sperimentare l’inadeguatezza e la caducità, le quali, a loro volta, gli dischiudono l’orizzonte del soprannaturale e gli mostrano che “può trovare la sua felicità piena solo nella partecipazione della vita di Dio”.
Queste tesi costituiscono l’ossatura di tutta la filosofia di Blondel e il terreno sul quale egli elaborò il cosiddetto «metodo dell’immanenza», che può essere formulato in estrema sintesi nei termini seguenti: è necessario prendere coscienza del fatto che il Divino è immanente nell’uomo, almeno come desiderio, e che nella finitezza umana alberga il desiderio di Dio. Il sistema blondeliano non è immune da limiti e presenta lati oscuri, che, peraltro, sono stati ampiamente denunciati e criticati. È giusto comunque ricordare che Blondel ha lasciato in eredità alcune acquisizioni di sicuro valore, tra cui spicca la sua prospettiva apologetica, che fa leva sul desiderio di infinito presente nel cuore dell’uomo e sulla limitatezza della condizione umana. Egli indicò pure al pensiero filosofico e teologico la via del superamento dell’opposizione tra razionalismo e irrazionalismo, nella convinzione che credere e sapere non sono realtà inconciliabili.
RICORDA
“Dopo la condanna del “modernismo” cattolico da parte della Chiesa, Blondel preferì rinunciare a scrivere di argomenti direttamente teologici, rielaborando e sviluppando piuttosto le sue tesi prettamente filosofiche, attraverso scritti di occasione, come quelli motivati dal dibattito sulla “filosofia cristiana”, svoltosi in Francia nel 1931; solo nel 1934, pubblicando i due volumi dell’opera La pensée (“Il pensiero”), Blondel riprende un piano sistematico di esposizione della sua dottrina, e nel 1936 pubblica in due volumi una nuova edizione dell’ Action. Mentre i filosofi tomisti (Maritain e Gilson) ebbero sempre un atteggiamento critico nei suoi confronti, altri filosofi cattolici (Claude Tresmontant) si ispirarono a lui, e più di un teologo (come Teilhard de Chardin e Henri de Lubac) adottò le sue categorie. In Italia ci furono ammiratori come Sciacca e avversari come Fabro”.
(Antonio Livi, La filosofia e la sua storia. La filosofia contemporanea – Il Novecento, vol. III, tomo 2, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1997, p. 779).
BIBLIOGRFIA
M. Blondel, L’azione, Edizioni Paoline, Cinisello Bal.mo (MI) 1993.
M. F. Sciacca, Dialogo con Maurizio Blondel, Marzorati, Milano 1962.
IL TIMONE N. 22 – ANNO IV – Novembre/Dicembre 2002 – pag. 28 – 29