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15.12.2024

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Mendicante di eternità
31 Gennaio 2014

Mendicante di eternità


 

Si chiamava don Martino Ceccuzzi e si firmava Idilio Dell’Era. Di lui si disse entusiasta Paul Claudel. Scrisse per Il Frontespizio, Il Giornale del Popolo di Lugano e L’Osservatore romano. Coniugò per tutta la vita il ministero sacerdotale, l’insegnamento nei licei e la poesia. Suo è il testo dell’inno del Palio di Siena

 

 

Ci sono persone che non incontreremmo mai, se non ci fosse la poesia. Ma la poesia è tradizione: un luogo invisibile eppure vero, nel quale ci completiamo gli uni gli altri, raccogliamo il testimone attraverso la distanza delle generazioni, concorriamo a vicenda al compito del bene. La realtà teologica cattolica della “Comunione dei Santi” formula in maniera alta e concreta questo desiderio del cuore umano: per questo motivo Dante incontrò Virgilio, nella Divina Commedia. Se dunque il passato, tra poeti, non esiste, oggi incontriamo l’autore del quale Paul Claudel aveva scritto: «Un libro di Idilio Dell’Era è sempre una ventata di spiritualità che investe l’anima nostra e la costringe, magari per un attimo solo, a dimenticare gli squallori e la tristezza della nostra vita quotidiana e ad innalzarsi verso le iridescenze dell’ideale e della incorruttibile bellezza».
A giudicare dallo sguardo impresso su una fotografia bianco e nero scattata in Toscana, presso l’abitato di Casal di Pari, dove era parroco, gli occhi di Idilio Dell’Era parlavano dentro una congerie di sentimenti: col corpo accosciato davanti a un cespuglio, col cane in braccio (Baffo, accoccolato tra le braccia del padrone), a malapena capiamo che l’uomo indossava una sdrucita veste talare: non immagineremmo mai che in quel momento costui, alias don Martino, stesse per essere fucilato, per rappresaglia tra repubblichini e popolazione civile. La fucilazione, però, non avrà luogo: all’ultimo giungerà una colletta raccolta dai parrocchiani, aggiunta al misterioso cospicuo obolo di una vedova, sufficiente a riscattare il condannato e salvarne la vita. Era il giugno del 1944.

Un mendicante di eternità

Martino Ceccuzzi era nato l’11 novembre del 1904 a Chiusi, nel contado senese da madre contadina e padre casellante ferroviario; trascorsa l’infanzia e la giovinezza tra Firenze e la Maremma, nonostante la povertà, aveva frequentato gli studi in seminario e quindi fu ordinato sacerdote, il 25 ottobre 1927.
A partire dagli anni Trenta, da parroco, aveva svolto anche una foltissima attività letteraria: collaborò con la rivista fiorentina Il Frontespizio, diretta da Piero Bargellini, e con molte altre, tra cui Il Giornale del Popolo di Lugano e L’Osservatore romano. E pubblicò più di quaranta opere fra poesia, racconti, romanzi, prose, scritti agiografici, saggi. Dagli anni ’50, aveva vissuto alle falde della Montagnola Senese in una piccola e umile casa, “la Domus Bonitatis” donatagli, ancora una volta, da una benefattrice: «In questa casa, al limite del bosco, piccola come un guscio di ghianda, m’è venuto… di pensare di essere un anacronistico eremita scampato al flagello Si chiamava don Martino Ceccuzzi e si firmava Idilio Dell’Era. Di lui si disse entusiasta Paul Claudel. Scrisse per Il Frontespizio, Il Giornale del Popolo di Lugano e L’Osservatore romano. Coniugò per tutta la vita il ministero sacerdotale, l’insegnamento nei licei e la poesia. Suo è il testo dell’inno del Palio di Siena del progresso universale…».
La voce selvatica della Maremma e i paesaggi delle Terre di Siena gli fornivano costante ispirazione; e visse in solitaria meditazione, pur svolgendo attivamente il proprio ministero sacerdotale, oltre a quello di insegnante di religione nei licei senesi, apprezzato da molti studenti per la maggior parte agnostici o non-credenti, secondo l’usanza toscana moderna. Dunque, un poeta prete o un prete poeta? La risposta è ardua da dare, vista la dignità, la disponibilità e la profondità profusa in ambedue le vocazioni.

«A me basta di sentire: di amare tutta la terra nelle sue piante, nelle sue acque, e il bel concavo del cielo, sia che rigurgiti di sole, come un immenso calice straboccante d’amore, sia che si vesta a bruno come la faccia dell’ira. A me piace la vita, a me piace la morte, l’odio, l’amore, tanto è il mistero del mio piccolo essere.
A me piace risentire ogni mattino che il mio sangue batte all’unisono con la terra che si sveglia, a me piace perdermi come un selvaggio fra i tronchi delle piante, e fissare le nubi che vanno senza domandarsi dove, né chiedere agli uomini il perché…
Allora la natura mi sembra una gran madre generosa, piena di memorie per me, piena di voci, piena di canti, piena di pianti, di orrori divini. Non le chiedo di trasformarmi in angelo, perché il lucido spirito che abita tra i celesti non sente come me le voci del creato. Io le chiedo di rendermi avventuriero, di rendermi primitivo come gli uomini della mia razza scomparsa… Sì, io voglio tornare al silenzio, ai campi dei miei genitori, ove essi dormono in pace, ove l’umili cose nacquero, vissero indisturbate come le viole lungo le siepi… Allora mi sveleranno il poema più bello, non scritto mai da penna umana, ma sentito dall’anima che visse nel silenzio dell’ombre, quasi romito ascoltando ogni voce del suo creatore» (Fondo Manoscritti presso la Biblioteca dell’Accademia degli Intronati, Siena).

Questi erano stati i suoi progetti, mentre la società italiana veniva inquinata dai miraggi del benessere economico. Don Martino visse sempre alle soglie della povertà materiale e mentre le comunità si disintegravano nelle seduzioni dell’individualismo edonista fu consigliere, amico, direttore spirituale, interlocutore, studioso: infaticabile, con le scarpe rotte ai piedi, senza smettere di essere uomo e sacerdote. Un’antologia pregevole dei suoi scritti è Mendicante di eternità. Le cose più belle dell’ultimo mistico senese (Cantagalli, 2005; pp.319, € 21).
Benché fosse defilato in un ascetico nascondimento, proprio nell’epoca in cui le novità scorrettamente interpretate del Concilio Vaticano II finirono per snaturare il ministero di un’intera generazione di ecclesiastici, don Martino/Idilio venne insignito di importanti riconoscimenti letterari, tuttavia insufficienti a sedurlo: nel giorno dell’Assunta del 1986, il sindaco di Siena conferiva l’onorificenza del “Mangia d’argento” a lui, il vecchio prete-poeta autore delle parole dell’inno del Palio. Ma nella medesima semplicità con cui visse, morì il 18 Giugno 1988.

Verso la polifonia sacra
Il tesoro delle sue poesie è ricco: centinaia, tra edite e inedite, che il professor Francesco Rossi va curando ed editando da anni tramite l’Associazione appositamente dedicata, a Sovicille (Si): si veda www.idiliodell’era. org. I titoli dei libri già usciti brillano: “Il mistico canto del creato” (1929- 1983), “Il canzoniere” (1932-1971), “Liriche dal Canton Ticino” (Cantagalli, 2011), “Il libro dei segni celesti” (1953-1965).
Siamo al cospetto di una voce poetica francescana nel parlare con il creato e le creature, con alberi e animali, e infuocata dai pinnacoli d’amore divino sotto l’egida di santa Caterina da Siena; e se l’oggetto pare rurale, campagnolo ma non rustico, il dettato dei versi è pienamente novecentesco, con accenti cardarelliani; persino in quella malinconia verso la morte che è tutta moderna. Se fosse possibile scegliere tra tanti componimenti, opterei per la lunga e teologica Polifonia sacra, che snoda un intimo colloquio tra il poeta e il Dio cristiano, sorprendente, immenso, vicino e presente nei volti dei fratelli come “prossimo” e nelle cose tutte come “sacramento”:

Ma Tu passavi forestiero,
sedevi all’ombra dei poveri
sulle porte logore di vento.
Eri il demente pallido,
il carcerato, il ferito […]
Doleva ai vecchi la memoria
di età defunte,
chiari d’aurora i pargoli
avevano i tuoi occhi:
gelose di silenzi,
allo spigar delle stelle,
le tue chiese.
Eri brezza soave, eri l’Amore. (vv. 216-231)

Ecco una poesia che dà del Tu al Signore, nell’epoca in cui “l’amore di molti si raffredderà”. Senza doppifondi né sottobanchi, è quindi antimoderna: cioè non dissacra né sconsacra né sacralizza alcunché. Viene al mondo grata, in cammino, come se nei versi, tra le righe, risuonasse sempre la frase “senza alcun mio merito”. Idilio Dell’Era è sconosciuto o quasi alla critica letteraria ufficiale: domani forse sarà anche peggio, se la mediocrità continuerà a essere il requisito per avere successo; ma i suoi lettori non hanno paura: sarà di nuovo presente quando si apprezzeranno gli uomini non per quello che sanno o quello che fanno, ma per quello che sono.  



IL TIMONE  N. 112 – ANNO XIV – Aprile 2012 – pag. 48 – 49

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