Di fronte alla diffusione dell’islam in Italia, l’azione pastorale della Chiesa avverte nitidamente due pressanti esigenze.
La prima è di educare il popolo cristiano a quegli atteggiamenti di fraternità, di accoglienza e di dialogo con la religione islamica, la cui assenza rappresenterebbe un tradimento evidente del vangelo di Cristo. Su questo terreno molta strada è stata fatta e resta ancora da percorrere, per sostituire, a una cultura della paura e della diffidenza, quella della relazione schietta e cordiale. Iniziative in questo senso sono indubbiamente da incoraggiare. Senza dimenticare altri due ingredienti – rispettivamente necessario e opportuno – di un serio dialogo con l’Islam: le condizioni di legalità (vedi il problema del terrorismo fondamentalista) e la reciprocità di trattamento (dei cristiani nei paesi islamici).
Non è possibile sottacere il rischio che si affermi, anche fra i cristiani, una visione relativistica dei rapporti fra le diverse religioni, quasi che – come talvolta recita una superficiale sloganistica – tutte le religioni fossero equivalenti, e alla fine si tratterebbe pur sempre di invocare lo stesso e identico Dio sotto differenti denominazioni. In realtà – pur non mancando punti in comune, sui quali ci si può e ci si deve incontrare – il Dio Trinitario non è uguale ad Allah, né Gesù Cristo a Maometto o il Vangelo al Corano. L’identità della nostra fede è un bene da salvaguardare e promuovere quanto e più della capacità di dialogo cordiale con tutti. Proprio e soltanto un’identità chiara, consapevole e argomentata può rendere possibile il dialogo, se questo vuole essere un reale e reciproco arricchimento e non uno sterile cicaleccio di maniera.
Dunque, nessuna alternativa possibile fra identità e dialogo, come fra Verità e Carità, oppure fra annuncio e accoglienza, bensì la fatica di mantenere uniti i due capi della catena. In ciò sta la difficoltà, e insieme la bellezza della missione cristiana.
Sul versante della comunità ecclesiale, il criterio cardine di riferimento rimane esattamente quello della testimonianza. La prima testimonianza è senz’altro la carità. La Chiesa non può rinunciare a osarne l’avventura anche con i membri della religione islamica, riconoscendo in ciascuno i tratti di un figlio di Dio chiamato a far parte del Regno. Ciò implica, per la comunità cristiana, il dovere di prendersi cura del prossimo (quale che sia la sua religione), a partire dalle forme più elementari del dare a lui un cibo, un vestito, un riparo, ossia gli elementi minimali della dignità umana. Vicariando in questo – ma senza sostituire – l’azione dell’autorità civile. Della medesima dignità umana fa parte anche il doveroso riconoscimento, da parte della comunità cristiana, della libertà religiosa, ossia il diritto, a tutti riconosciuto, di cercare la verità ultima di tutte le cose (Dio) nella forma che ciascuno ritiene più vera. Tutt’altra cosa, invece, è il favorire o l’agevolare una dottrina o una pratica religiosa differente da quella cristiana. Se c’è un dovere sacrosanto, per la comunità cristiana, di lasciare a ciascuno la libertà di professare la propria religione, non esiste affatto il dovere (e magari la correlativa pretesa) di sostenerne le iniziative cultuali o formative. Solo un malinteso e approssimativo senso della carità cristiana potrebbe affermare una simile cosa. Se la testimonianza della carità ha le sue (inderogabili) esigenze, ciò non deve andare a detrimento della testimonianza della verità. Concedere locali o spazi riservati al culto cristiano, o destinati alle attività pastorali, come luoghi di culto, di propaganda o di elaborazione politica – come spesso avviene – per i musulmani contraddice alle esigenze della testimonianza, perché verrebbe facilmente equivocato non come gesto di cristiana bontà, ma come segno evidente che le religioni sono tutte uguali; se non addirittura come rinuncia dei cristiani alla loro identità religiosa. Tali iniziative appaiono perciò del tutto inopportune.
Questa affermazione riprende quasi alla lettera una posizione del cardinale Carlo Maria Martini, il quale riprova come «zelo disinformato » il non rispettare le fedi «con la loro specificità e con l’offrire indiscriminatamente spazi di preghiera o addirittura luoghi di culto senza aver prima ponderato che cosa significhi questo per un corretto rapporto religioso» (6 dicembre 1990).
Sotto il profilo educativo, poi, la questione è rilevante. Se la pedagogia della Chiesa deve giustamente preoccuparsi di educare talune espressioni di tracotanza della propria identità e tradizione cristiana (forme quantomeno sospette nella loro genuina radice evangelica), altrettanto deve dirsi del rischio di annacquare l’identità cristiana nel caos del relativismo e del sincretismo religioso.
In proposito gioverà ricordare, a scanso di facili irenismi, che le diverse religioni, se per un verso incarnano cammini autentici di possibile, contaminata e parziale santificazione ed elevazione dell’umano, per altro verso presentano un insopprimibile profilo idolatrico.
Inoltre, se è vero che gli elementi di verità e di grazia, presenti nelle diverse religioni, sono germinazioni autentiche dello Spirito di Cristo (da lui provengono e a lui tendono), è solo nella Chiesa cattolica che sussiste la pienezza della verità e della grazia, sia pure nella forma oggettiva che richiede una ricerca e un’assimilazione fino al compimento anche perfettamente soggettivo.
Siamo di fronte a un problema pastorale molto serio, che esige la piena sintonizzazione su una linea disciplinare comune. Iniziative estemporanee o fuori dal coro, pur animate da lodevoli intenzioni, possono indurre confusione e disorientamento nel popolo di Dio.
Luoghi di culto con i soldi dello Stato: non è opportuno.
Sul versante della società civile, la regola aurea di riferimento è il principio di sussidiarietà. Lo Stato laico riconosce e sostiene le diverse espressioni religiose, quali preziose risorse che concorrono al bene comune: arricchiscono la vita civile, aiutano il singolo a decifrare l’enigma della vita e le sue questioni ultime, veicolano importanti risorse di aggregazione e di educazione. Per questo lo Stato laico deve farsi garante del diritto di ogni cittadino a professare la propria religione, in forma non solo privata ma anche pubblica. Almeno quando le forme religiose non cedono alla violenza, rispettano la libertà di tutti nel bene comune e si presentano con qualche consistenza numerica, storica, dottrinale e rituale. Lo Stato laico dovrà dunque vigilare affinché una determinata espressione religiosa non sia contraria – nella dottrina e nella pratica – al bene comune; dovrà avere un’attenzione privilegiata per le religioni più rilevanti sul piano numerico e della tradizione storica del popolo, senza tuttavia trascurare significative minoranze; dovrà sostenere le iniziative che, nascendo nell’ambito di una religione, abbiano positiva ricaduta civile. Non è dunque da ritenersi legittima l’erogazione di denaro pubblico per l’edificazione di luoghi di culto, salvo il caso di una comprovata rilevanza dell’edificio stesso dal punto di vista storico o artistico-architettonico. Senza dimenticare che i luoghi di culto, almeno nel loro nascere, sono prevalentemente sostenuti dalla fede e dal soccorso economico dei credenti di una determinata religione. (A. Maggiolini)