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12.12.2024

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Moschee integrate, che illusione
6 Marzo 2015

Moschee integrate, che illusione

Dai sermoni in italiano alla difficile vertenza per riconoscere i luoghi di culto islamici attraverso patti di convivenza e regolamenti comunali.
Il caso di Milano insegna che il percorso per evitare le moschee fai-da-te è ostacolato dall’opposizione delle stesse associazioni che temono di perdere la loro indipendenza

Dopo l’azione militare del 7 gennaio contro la redazione di Charlie Hebdo a Parigi, una mezza dozzina di associazioni
islamiche italiane diffondono comunicati pressoché identici, ripresi in rapida successione dalle agenzie di stampa, nei
quali sostengono di aver disposto da tempo che i sermoni pronunciati in occasione della preghiera del venerdì nelle moschee del loro circuito fossero tradotti in lingua italiana. Un atto di disponibilità formale e organizzato che nel contempo non risulta per nulla rassicurante e si rivelerebbe perfino inutile se non fosse garantita la corrispondenza fra quanto comunicato ai fedeli in lingua araba e la versione da fornire pubblicamente. Ai musulmani è pur sempre concesso l’utilizzo della taqyya, cioè della dissimulazione, nel momento in cui si rivolgono a quelli che considerano i miscredenti.
Un imam può tranquillamente istigare alla guerra santa, pur rispettando le leggi e la Costituzione, con l’unica accortezza
di proporre versetti coranici allusivi, ambigui o controversi.

Extraterritorialità
In ogni caso, non basta riportare fedelmente i contenuti di una predica per rendere compatibile la moschea con la società
circostante. Lo aveva sottolineato il Comitato per l’islam italiano, il 27 gennaio 2011, con un parere sui luoghi di culto islamici, con un invito a non sottovalutare «l’esistenza di alcune pretese di extraterritorialità, che in alcuni strati minoritari della popolazione islamica coincidono con l’adesione alla dottrina, propria del diritto sharaitico più antico, che impone una rigida separazione fra “credenti” e “miscredenti” ». Ne consegue un rischio di «suddivisione del territorio in una parte pacifica, il dâr al-islâm o “casa dell’islam” compresa in una dâr al-amn “casa della sicurezza” e alcune zone di conflitto come il dâr al-harb o “casa della guerra” e il dâr alkufr, “casa della miscredenza”, che indica i luoghi in cui la legge islamica non può essere ufficialmente applicata». Attenzione, dunque, avvertivano gli esperti, perché «una cultura giuridica che si conformi a tali princìpi evidenzia la propria distanza dal concetto di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, soprattutto allorché il dâr al-islâm sia inteso anche come comprensivo di “territori riservati”, sui quali non può essere tollerato nessun controllo politico di uno Stato straniero. La questione è vieppiù complicata dall’esistenza di “territori canonici”, nei quali i musulmani sono tenuti a osservare apertamente l’islam, dove esso sia religione riconosciuta ufficialmente, anche se l’autorità governativa non è musulmana. Inoltre, vi è una terza categoria, dâr al-sulh o dâr al-‘ahd,   “casa della tregua” o “casa dell’alleanza”, che comprenderebbe territori tributari dell’islam, che con esso abbiano firmato un patto e non devono perciò pagare l’imposta dovuta dai “protetti”, gli ebrei e i cristiani ». Certo, «autorevoli esponenti islamici in Italia sostengono che la moschea non soggiace che alle leggi dello Stato in cui sorge», ricordava il Comitato quattro anni orsono, ma l’esperienza insegna che altri non la pensano allo stesso modo.

Regole e condizioni
Lo si è potuto constatare anche recentemente, in occasione di un bando del Comune di Milano per l’assegnazione di aree per la realizzazione di luoghi di culto. Fra i criteri di valutazione delle istanze, stabiliti dalla Giunta municipale alla fine del dicembre 2014, sono stati inseriti la rappresentatività sul territorio e gli anni di presenza sul territorio del proponente; un piano di sostenibilità economico finanziaria e strumenti di tracciabilità dei movimenti finanziari; l’attitudine del progetto a realizzare spazi e momenti volti alla promozione del pluralismo religioso; la capacità di ulteriori attività sociali e culturali anche prevedendo nel progetto: rapporti costanti e una specifica relazione con il Consiglio di Zona; i rapporti con le istituzioni ed il territorio: rapporti di collaborazione con il Comune di Milano o altre istituzioni, rapporti con istituzioni internazionali e/o governative di carattere religioso; la chiusura di strutture religiose già presenti nel territorio e loro sostituzione con nuovi luoghi; e infine l’accessibilità alla comprensione dei contenuti divulgati nel corso delle attività
religiose anche tramite utilizzo di traduzioni in lingua italiana.
Regole semplici, appena appena prudenti, a cui si aggiungono due condizioni: innanzitutto che i rappresentanti delle realtà religiose non abbiano in essere condanne o procedimenti penali in corso e in secondo luogo la sottoscrizione con l’Amministrazione di un “patto” fondato sul riconoscimento e sul rispetto dei principi della Costituzione italiana, quali il rispetto della persona umana e della laicità dello Stato.
Ebbene, il successivo 7 gennaio, esattamente il giorno della strage di Parigi, il Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, Monza e Brianza (Caim) giudica irragionevoli e incomprensibili le richieste del Comune relative all’esperienza sul territorio, vista l’importanza data alla «necessità di documentare solide relazioni con le istituzioni e il tessuto sociale della città». Altra nota dolente è poi la richiesta di favorire il pluralismo religioso: «Un conto è dialogare con altre fedi, obiettivo molto chiaro e che abbiamo sempre perseguito », contesta Davide Piccardo, ma «altra cosa è pretendere che un luogo di culto favorisca il pluralismo religioso, cosa mai richiesta ad altre comunità religiose». Inoltre,
l’avvocato del Caim, Reas Syed, ritiene discriminatorio il requisito di sottoscrizione della “Carta dei valori” elaborata nel
2006 dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato perché «solo una delle 52 associazioni iscritte all’Albo delle religioni del Comune rispetta tale requisito, in quanto o non esistenti al momento dell’approvazione di quella Carta o non invitate a fare parte di quel percorso. Per il legale, infine, andrebbe cancellata la clausola che permetterebbe al Comune di annullare la concessione, nel caso in cui vengano rilevate attività illegali. «Premesso che per noi il rispetto delle leggi è un must – ha spiegato Syed -, contestiamo questo punto per due motivi: perché la responsabilità penale è individuale, e se qualcuno delinque non è giusto che tutta la comunità che usufruisce dei servizi di un luogo di culto debba essere penalizzata, e perché le attività illegali possono essere, come recita il bando, accertate dalla magistratura o da altri organi preposti: crediamo sia compito della magistratura, ma chi sono questi altri organi?
Non è specificato». Insomma, se qualche terrorista frequentasse la moschea, non ci si dovrebbe far troppo caso. Come se fossero fatti suoi e non della comunità.

La legge della Lombardia
Per dare ordine alla materia, il 27 gennaio scorso, il Consiglio della Regione Lombardia ha varato una legge sui luoghi di culto, introducendo una serie di prescrizioni stringenti tra cui la videosorveglianza mediante telecamere collegate alle forze dell’ordine, che si applicherebbero a tutti i luoghi di culto delle religioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato. Si prevede poi che i luoghi di culto siano dotati di parcheggi pari al 200% della loro superficie lorda, di impianti di videosorveglianza esterna collegata con le forze dell’ordine, a carico della confessione religiosa, di strade di collegamento idonee e dovranno essere congruenti architettonicamente con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo. Tutto per evitare le moschee fai-da-te, che proliferano grazie alla «consuetudine – lo ricordava già quattro anni fa il Comitato per l’islam italiano -, ormai invalsa in numerosi Comuni italiani, di presentare all’amministrazione locale una richiesta per poter fruire di locali pubblici da adibire a centro culturale. Una volta ottenuta
la concessione degli spazi, ne viene chiesto il cambio di destinazione d’uso, pur in assenza di modifiche ai piani urbanistici, allo scopo di adibire i locali a luogo di culto». Ma «la pratica di utilizzare costruzioni per attività diverse da quelle per le quali sono state realizzate, quando non tenga conto delle leggi sul governo del territorio, non può tuttavia essere considerata legittima soltanto perché riguarda in generale il legittimo diritto al culto». â–

Per saperne di più…
Giovanni Cantoni, Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della vulgata “islamicamente corretta”, con una Prefazione di Samir Khalil Samir S.J., Centro Studi “A. Cammarata”, 2000

 
Il Timone – Marzo 2015
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