I rapporti fra i seguaci di Cristo e le autorità imperiali romane oltre le falsità ideologiche insegnate a scuola. Una presenza che si diffonde nonostante le persecuzioni, che non furono molte. Per lunghi periodi, infatti, Chiesa e Impero vissero in pace
La (fortunatamente) enorme diffusione del Crocifisso nei diversi contesti in cui viviamo, al pari di quel «patì sotto Ponzio Pilato» che ripetiamo nel Credo, ci predispone a dare per scontato che tra Cristianesimo e impero romano, più che un incontro, ci sia stato sulle prime uno scontro nel quale i primi Cristiani furono vittime di persecuzioni continue e barbare, come testimoniano le immagini del martirio dei Santi dei primi secoli. Fino a quando (come accade nelle favole) arrivò l’imperatore “buono” Costantino (274-337) che, dopo aver visto in sogno Gesù e sconfitto a Ponte Milvio il “cattivo” di turno, Massenzio (278-312), cancellò il paganesimo e fondò un nuovo impero Cristiano, andato poi a catafascio nel giro di un secolo e mezzo perché la nuova religione predicava la liberazione degli schiavi (la principale forza lavoro dell’economia antica) e il rifiuto della guerra (per cui l’esercito romano si sarebbe dissolto davanti alle orde barbariche). Questo è, più o meno, quanto in genere si sa della storia del rapporto tra Cristianesimo e Roma, quanto si insegna anche oggi (quando lo si insegna: secondo molti la storia antica non serve
a nulla!) nelle nostre scuole, e quanto ci mostrano classici del cinema quali Quo Vadis o La tunica. Per cui, visitando il Colosseo ormai deserto, ci sembra di veder rivivere davanti a noi i leoni e, girando fra i cunicoli di una catacomba, aspettiamo quasi di imbatterci in un gruppo di fedeli riuniti attorno a san Pietro o a uno dei suoi successori impegnati a celebrare di nascosto l’Eucarestia alla luce delle torce.
Luoghi comuni
La realtà è un po’ diversa e forse meno poetica. I primi Cristiani non venivano mandati ai leoni tutti i giorni e tanto meno erano costretti a riunirsi di nascosto nelle catacombe: e l’impero diventò Cristiano attraverso un processo di evangelizzazione graduale e di lungo periodo e non certo dalla sera alla mattina per decisione di Costantino. Anche perché Massenzio non era un “cattivo”: anzi, ai Cristiani era gradito perché nel 311 aveva restituito al Papa i beni sequestrati alla Chiesa sotto Diocleziano (244-311). Molti Cristiani erano a Ponte Milvio tra i suoi soldati (in genere originari di Roma e dell’Italia), per difendere la loro città dall’ennesima invasione barbarica della sua storia (i soldati di Costantino, infatti, quasi tutti pagani, provenivano dalle regioni transalpine). Quanto al fatto che la cristianizzazione dell’impero abbia segnato l’abolizione della schiavitù, purtroppo, è pura favola: e chi è in cerca del fenomeno dell’obiezione di coscienza nel mondo romano può utilmente riferirsi a intellettuali pagani come Tibullo o ai seguaci di movimenti ereticali come il Montanismo. Tra i fedeli cristiani troverà più facilmente autori di manuali di arte militare (Sesto Giulio Africano e Vegezio) e militari assurti alla gloria degli altari (san Martino e san Maurizio sono solo i più noti); nelle pagine dei Padri leggerà preghiere ed elogi per i soldati e celebrazioni delle virtù militari romane; negli atti ufficiali della Chiesa, infine, accanto alla scomunica dei renitenti alla leva (concilio di Arles, 314, canone 3), incontrerà persino un caso di canonizzazione di massa di caduti per la patria (battaglia di Avarair, 451).
In verità, le autorità romane della Giudea, ancora vivente Gesù, avevano ben capito che il suo insegnamento era diverso da quello di tutti gli altri rabbi. Questo Messia portatore di un messaggio di pace e che non solo non aveva nulla da dire contro l’autorità imperiale, ma la rispettava e invitava a rispettarla, non poteva non piacere ai Romani. Non per nulla Ponzio Pilato (la sua “leggenda nera” nacque e si diffuse solo molto tardi: i Cristiani etiopi lo annoverano da sempre tra i santi) cercò in ogni modo di salvare Gesù e cedette solo davanti al rischio di tumulti di piazza e alle minacce dei capi dei Giudei di lamentarsi di lui presso l’imperatore Tiberio (42 aC-37).
La base giuridica delle persecuzioni
A Tiberio, comunque, Pilato debitamente relazionò per iscritto su Gesù e sui suoi seguaci e l’imperatore (che pure non stimava e non nutriva grande simpatia per Pilato) capì subito che i seguaci di questo nuovo Messia (che lui stesso o qualche suo stretto collaboratore chiamò “Cristiani”, mentre fino ad allora erano per tutti i “Nazareni”) potevano essere un elemento stabilizzante per una terra difficile come la Palestina. Da qui l’idea di proporre al Senato di riconoscere la divinità di Gesù (così come già molti anni prima si era fatto per il Dio d’Israele).
Può apparire strano, ma a Roma era il Senato a decidere sulle questioni teologiche. La concezione religiosa romana, infatti, figlia di quella etrusca, considerava la storia come luogo e canale di relazione del divino con l’umano: per cui i fatti della storia erano interpretati come comunicazioni degli dei e, poiché il culto sacro era lo strumento con il quale gli uomini potevano a propria volta interagire con gli dei, garantire che il culto venisse indirizzato e gestito nel modo corretto significava per i Romani evitare accadimenti negativi e dunque garantire la sicurezza della collettività. Così trasformata in questione di sicurezza pubblica, la religione entrava nel novero delle competenze dello Stato: esisteva dunque, accanto alla politica estera o a quella militare, una vera e propria “politica verso la divinità”, affidata alla supervisione di un sacerdozio (il pontificato massimo) ricoperto durante la Repubblica da personalità politiche di primo piano e poi direttamente dall’imperatore. Al Senato rimaneva direttamente affidata la prerogativa di proporre e approvare eventuali modifiche allo status quo.
Purtroppo per i cristiani, i rapporti fra Tiberio e il Senato erano notoriamente pessimi. Fu così che, alla proposta di riconoscere per legge la natura divina di Gesù Cristo e la liceità del culto resogli dai suoi seguaci, i senatori opposero un secco no per pura ripicca. Un vero disastro, per i cristiani, che avevano potuto beneficiare fino ad allora di quella relativa libertà di cui da sempre gode chi si trova ad agire in un ambito ancora non regolamentato per legge. Quel rifiuto del Senato a dichiarare la loro una “religione lecita”, la faceva diventare viceversa ipso facto una “religione illecita” e dunque essi si trovarono da un momento all’altro esposti all’accusa di crimini contro lo Stato.
Tiberio, come suo solito, non si curò più di tanto del voto del Senato: si limitò a decretare che chiunque avesse accusato un cristiano come tale avrebbe subito pene peggiori (morte compresa) e ciò bastò per un paio di decenni a garantire che il Cristianesimo potesse diffondersi senza problemi anche tra le classi dirigenti e all’interno della stessa corte imperiale. Tuttavia, la base giuridica per perseguitare i Cristiani era stata creata e i problemi sorsero infatti non appena Nerone (37-68) abrogò il decreto di Tiberio, dando così via libera alla presentazione delle denunce, ai processi e alle condanne. Nerone durò poco (anche se fece molti danni) ma, da allora in poi, il rinnovo o il ritiro del veto a dare applicazione a quella decisione del Senato dell’età di Tiberio mantenne i cristiani – che nei primi due secoli e mezzo vissero comunque normalmente in pace, al punto che un cristiano, Filippo l’Arabo, fu anche imperatore, dal 244 al 249 – in questa condizione di rischio di poter essere periodicamente denunciati, processati e uccisi per crimini contro lo Stato. Solo con l’imperatore Valeriano venne posta fine a questa situazione e a questa logica del “vedo – non vedo”. Spaventato per l’ormai vastissima diffusione della religione cristiana, nel 257 Valeriano decise di imprimere un salto di qualità all’azione persecutoria, rivolgendola apertamente contro la Chiesa, facendo chiudere i luoghi di culto, confiscando i cimiteri, esiliando e uccidendo i vescovi. Così facendo, egli riconobbe formalmente (sebbene in negativo) l’esistenza della Chiesa e con questo suo atto, proprio come Tiberio, aprì la strada ad esiti opposti a quelli voluti. Il suo successore, suo figlio Gallieno (218-268), per far finire la persecuzione non poté infatti più rifarsi alla politica del “vedo – non vedo”, ma dovette riconoscere formalmente la Chiesa (questa volta in positivo). È dunque con il suo editto del 260 che il Cristianesimo venne legalizzato (seppure ancora non come religione, ma come Chiesa, cioè come organizzazione con finalità religiose).
L’Editto di Milano
L’Editto di Milano, dunque, è tutt’altra cosa. Con esso, secondo la tradizionale “politica verso la divinità” (non per nulla l’emanazione del provvedimento è riferita alla volontà di risolvere “i problemi riguardanti il bene e la sicurezza della collettività”), si riafferma il principio che ogni divinità (e il Dio dei Cristiani è il primo) ha diritto a ricevere il debito culto, ma si sposta dallo Stato ai singoli individui la facoltà e la responsabilità di relazionarsi con la sfera del divino. L’impero non viene con questo affatto cristianizzato e Costantino non si fa battezzare (lo farà solo in punto di morte): né egli cancella il culto degli dei della tradizione o rinuncia al titolo di “pontefice massimo” o alle celebrazioni sull’ara della dea Vittoria nell’aula del Senato. Continua persino (seppure in via riservata) a servirsi degli aruspici per farsi spiegare il significato dei fulmini che cadono talvolta sul palazzo imperiale o nei suoi pressi. La sua, come ha scritto la storica Marta Sordi, fu «una conversione pagana al Cristianesimo» e molti hanno giustamente notato che egli contribuì a “romanizzare” il Cristianesimo (giuridicizzandolo e creando ex novo, da un edificio della tradizione pagana, la “basilica”, il modello del luogo di culto cristiano ancor oggi universalmente in uso) non meno di quanto favorì la cristianizzazione dell’impero. Solo Teodosio, con l’Editto di Tessalonica (27 febbraio 380), fece del Cristianesimo la religione ufficiale dell’impero e mise al bando il paganesimo, avviando vere e proprie persecuzioni contro i suoi fedeli, introducendo contro di loro persino la pena di morte (8 novembre 392).
IL TIMONE N. 119 – ANNO XV – Gennaio 2013 – pag. 36 – 38
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