15.12.2024

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Non è il primo caso
31 Gennaio 2014

Non è il primo caso



La rinuncia di Benedetto XVI non è la prima nella storia della Chiesa. Altri Pontefici lo hanno preceduto. E negli ultimi tempi, diversi Papi ci hanno seriamente pensato


La rinuncia al papato è un fatto rarissimo nella storia della Chiesa. A dire il vero, Benedetto XVI aveva in qualche modo preavvertito la Chiesa, rispondendo in modo semplice e diretto alla domanda del giornalista Peter Seewald nel libro Luce del mondo (2010). Aveva detto: «Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi».

I precedenti

I vescovi di Roma che hanno abbandonato il loro incarico sono pochi. E comunque nessuno dei casi passati può essere paragonato a quanto accaduto nelle scorse settimane con Benedetto XVI. Ancora agli albori della Chiesa, troviamo il caso di Papa Clemente, il terzo successore di Pietro dopo Lino e Anacleto, attorno all’anno 92. Sarebbe stato questo Papa, secondo la tradizione, l’autore di una lettera nella quale si esortano i più generosi ad allontanarsi piuttosto che suscitare divisioni e discordie. Parole nelle quali si rifletterebbe la condizione stessa dell’autore.
Il primo caso documentato è però quello di Ponziano, diciottesimo vescovo di Roma, eletto circa nell’anno 230. Cinque anni dopo venne deportato in Sardegna e condannato ai lavori forzati in miniera. Rinunciò alla carica il 28 settembre 235, permettendo così che gli succedesse Antero.
Devono passare ancora tre secoli per arrivare a Papa Silverio, figlio di Papa Ormisda, suddiacono della Chiesa di Roma. Venne imposto sul soglio nel 536 da re Teodato e si dedicò alla lotta contro i monofisiti. Proprio questa sua azione impensierì l’imperatrice Teodora, che lo fece deporre e confinare nell’isola di Palmarona.
Passano diversi secoli, e si arriva a Benedetto IX, che regnò dall’ottobre 1032 al settembre 1044. Espressione di «assoluta mondanizzazione e strumentalizzazione del potere papale», come ha scritto L’Osservatore Romano, venne costretto a lasciare per una rivolta del popolo. Ma depose il suo successore Silverio III e tornò sul trono per alcune settimane nel 1045, prima di cedere nuovamente il posto, questa volta a Gregorio VI. Tornò una terza volta sul trono, dopo la morte improvvisa di Clemente II, nell’ottobre 1047, ma fu finalmente dimesso da Enrico III, pur continuando a ritenersi il vero Papa in carica.
Si giunge così al grande precedente di dimissioni, quello di Celestino V, il monaco eremita Pietro da Morrone, santo canonizzato. Venne eletto Papa nell’agosto 1294, fu incoronato all’Aquila e quindi si ritirò a Napoli. Si dimise il 13 dicembre di quello stesso anno. Si passa così ad Angelo Correr, figlio del patrizio veneziano Nicolò di Pietro, l’ultimo Papa a lasciare il trono prima di Benedetto XVI. Eletto nel 1406 regnò fino 1415 con il nome di Gregorio XII, si dimise su richiesta del concilio di Costanza in un periodo tra i più complessi della storia della Chiesa, caratterizzato da anni di lotte e di contese giuridiche, ma anche belliche e diplomatiche. Si dovette confrontare con gli antipapi Benedetto XIII, eletto dalla fazione avignonese, e Giovanni XXIII (questo nome che verrà poi riutilizzato da Angelo Roncalli nell’ottobre 1958) durante lo scisma d’Occidente. Dopo essere tornato Angelo Correr, l’ex Papa visse a Recanati dove morì il 18 ottobre 1417.

Quei Papi ci hanno pensato

Il tema delle dimissioni è tornato alla luce nell’ultimo secolo. I progressi della medicina hanno allungato notevolmente la vita, e da Pio IX in poi lo stesso ruolo del successore di Pietro si è caricato di compiti e funzioni al punto da rendere sempre più difficile il suo espletamento per una persona non pienamente in possesso di vigore fisico e intellettuale. Sembra che già Pio XI, al secolo Achille Ratti, Papa dal 1922 al 1939, avesse meditato negli ultimi anni di vita la possibilità di questo gesto. È certo, invece, che lo fece per due volte il suo successore, Eugenio Pacelli, Papa Pio XII. Eletto alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra mondiale, il Papa venne a sapere di un progetto di Adolf Hitler, che voleva rapirlo e deportarlo fuori dall’Italia. Fece sapere al suo stretto entourage che di fronte alla minaccia concreta di deportazione da parte dei tedeschi, essi «avrebbero portato via il cardinale Pacelli, non il Papa», come ha testimoniato il cardinale Domenico Tardini, all’epoca suo stretto collaboratore nella Segreteria di Stato. Pio XII scrisse una lettera di dimissioni e la fece avere al cardinale Manuel Cereieira Gonçalves, patriarca di Lisbona, che era stato creato cardinale insieme a Pacelli nel concistoro del dicembre 1929. La scelta non era casuale: il Portogallo era un paese neutrale, non coinvolto nella guerra. In caso di deportazione del Papa, i cardinali sarebbero stati liberi di riunirsi ed eleggere un nuovo Pontefice. Alla fine della guerra quel documento venne distrutto.
Ma Pio XII giunse a un passo dalle dimissioni anche alcuni anni dopo, nel 1954, quando la malattia lo colpì. Però si riprese, e l’idea fu abbandonata. Il pensiero delle dimissioni ha sfiorato anche il suo successore, il beato Giovanni XXIII. Ha rivelato il suo segretario, monsignor Loris Capovilla: «È scolpito nitidamente nella mia memoria il colloquio col vescovo Alfredo Cavagna, confessore e consigliere di Giovanni XXIII, un venerdì di quaresima 1963, pomeriggio, di cui all’istante non fissai sulla carta il contenuto: monsignore esce dalla stanza del Papa dopo averne ascoltato la confessione ed essersi intrattenuto con lui a lungo sugli schemi del Concilio. Mi fa chiamare in salone e senza preambolo, supponendo forse che io sapessi qualcosa, mi dice che il Papa non può dimettersi… È evidente che nel corso della conversazione, Giovanni XXIII, considerato il suo stato di salute e in previsione dell’immane lavoro previsto nella prosecuzione del Concilio, deve essersi dichiarato disposto a rinunciare al papato».
L’ipotesi torna nuovamente allo studio con Paolo VI. «Lo preoccupava – ha raccontato il gesuita padre Dezza, suo confessore – il pensiero di un’infermità che lo rendesse inabile al lavoro, per il danno che ne sarebbe venuto alla Chiesa». Papa Montini pensò seriamente, e varie volte, all’eventualità di dimettersi. Si premurò di scrivere una lettera di due pagine, vergata di suo pugno, nella quale invitava i cardinali a convocare il conclave nel caso di una sua inabilità prolungata e della sua incapacità di manifestare per tempo le dimissioni. Inoltre, Paolo VI prese seriamente in considerazione la possibilità di lasciare il pontificato al compimento degli ottant’anni, lui che aveva posto questo limite d’età ai porporati per l’ingresso in conclave. Sembra che la decisione fosse già presa, e in questa luce sarebbe da leggere il mini-concistoro del 1977 (nel quale ricevette la porpora il cardinale Giovanni Benelli insieme a Ratzinger). Poi però si dissuase. E decise di restare al suo posto.
Infine il problema si è posto nuovamente con la lunga a invalidante malattia di Giovanni Paolo II. Il beato Karol Wojtyla ha discusso più volte con i suoi collaboratori sulla possibilità di dimettersi.
Il cardinale spagnolo Julìan Herranz Casado, canonista del clero dell’Opus Dei, ha rivelato di essere stato interpellato alla fine del pontificato wojtyliano sulla questione delle dimissioni. E in un suo libro riporta l’appunto personale da lui stesso redatto il 17 dicembre 2004 «dopo una conversazione » con l’arcivescovo Stanislaw Dziwisz, all’epoca segretario del Papa e oggi cardinale di Cracovia. «Quanto all’eventualità di rinunciare per motivi di salute scrissi in quell’appunto, e adesso mi sembra opportuno farlo conoscere, come esempio dell’obbedienza e della prudenza eroiche di Giovanni Paolo II: “Si è limitato (don Stanislao) a commentare che il Papa – che personalmente è molto distaccato dalla carica – vive abbandonato alla volontà di Dio. Si affida alla divina Provvidenza. Inoltre, teme di creare un pericoloso precedente per i suoi successori, perché qualcuno potrebbe rimanere esposto a manovre e sottili pressioni da parte di chi desiderasse deporlo”».

IL TIMONE N. 121 – ANNO XV – Marzo 2013 – pag. 12 – 13

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