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14.12.2024

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Note sull’Evangelizzazione
31 Gennaio 2014

Note sull’Evangelizzazione

 

 

 

 

I destinatari
Chi dobbiamo evangelizzare? La risposta viene da Gesù: «Predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mt 16,15).
Siamo inclusi tutti: noi cristiani, che nel nostro mondo interiore siamo ancora largamente pagani; e, senza eccezione, gli altri che, anche quando sembrano del tutto estranei alla fede, spesso ospitano in sé non poche scintille del fuoco evangelico. San Luca dice che il Messia è stato «mandato per annunziare ai poveri il lieto messaggio » (Lc 4,18). Ma non si deve vedervi una limitazione sociologica che attenti all’universalità dei destinatari. I poveri vengono citati perché il Vangelo è la sola buona notizia che essi abbiano mai ricevuto dal principio del mondo; e probabilmente anche perché chi ha la fortuna di nascere povero è oggettivamente più vicino al Regno di Dio e più aperto ad accogliere la sua manifestazione.
C’è da dire che tutti gli uomini, a misura che non conoscono Cristo centro e senso di ogni esistenza, sono in stato di estrema miseria, e dunque, quale che sia la loro condizione economica, sono da collocarsi tra i poveri in attesa del lieto messaggio. Non avremo perciò preclusioni verso nessuno: noi sappiamo che «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,23) e hanno un assoluto bisogno della salvezza portataci dall’Unigenito del Padre.
Da chi partiremo? È invalsa in questi anni l’abitudine di dire che si deve «partire dagli ultimi». È una locuzione non del tutto immune da ambiguità.
Forse è più semplice e incontrovertibile non discostarci dalla locuzione preferita da Gesù, e dire che bisogna partire dal «prossimo»; coll’attenzione però che bisogna rendere «prossimi» quanti ci sarà consentito di raggiungere. Il precetto di amare il prossimo vale dunque anche per questo fondamentale atto d’amore che è l’evangelizzazione.

Le nostre difficoltà
Conosciamo i dati sfavorevoli all’azione evangelizzatrice che sono presenti nel nostro ambiente.
In quasi tutta l’Italia di questi anni c’è stato il predominio della cultura marxista, a vergogna dei molti intellettuali che se ne sono fatti difensori e banditori. In quasi tutta l’Italia si sono divulgati i vizi e le attitudini mentali dei «ricchi», che secondo Gesù sono i più svantaggiati nella corsa verso il Regno dei cieli.
Gli italiani, che in misura e in forme diverse si sono lasciati incantare sia dalla «grande menzogna» sia dalla lusinga del godimento sfrenato, hanno bisogno non di parole carezzevoli ma di verità; hanno bisogno di essere risvegliati dalle loro pericolose illusioni di esuberanza vitale e di rendersi conto della loro implacabile decadenza umana; hanno bisogno di essere richiamati da un generale atteggiamento di frivolezza alla serietà delle questioni che contano.

Verso l’uomo in quanto uomo
Non va dimenticato che il destinatario del Dio che si rivela e si comunica è sempre l’uomo in quanto uomo.
Le specificazioni storiche e ambientali hanno molta rilevanza ai fini di un annuncio efficace, ma la sostanza del discorso di evangelizzazione tocca nel profondo allo stesso modo ogni figlio di Adamo e trova risonanza in ogni coscienza, di là da qualsivoglia determinazione culturale. È importante che ci sappiamo rivolgere all’«uomo di oggi», ma è ancora più importante che il nostro messaggio sia così essenziale e così «umano» da trovare la strada del cuore dell’«uomo di sempre».
Sotto le incrostazioni ideologiche di varia provenienza e natura, va scoperto e raggiunto l’eterno interlocutore di Dio, sempre identicamente alle prese con il mistero della morte, con l’assurdità della sofferenza senza scopo, con l’insopportabile malessere del peccato non redento.

Musulmani ed ebrei
Il nostro compito di annunciatori non ha limiti. È intrinseco alla nostra condizione di cristiani il desiderio che Gesù di Nazareth sia riconosciuto da tutti come il Figlio di Dio, il Salvatore del mondo, il Signore che è risorto ed è il principio di risurrezione.
Da tutti; e dunque anche dai musulmani che sono venuti tra noi. Aiutarli a trovare cibo, alloggio, lavoro ci è richiesto dalla nostra fede che deve farsi attenzione fattiva verso chi è nella necessità, chiunque esso sia; ma per sé non è compito statutario della comunità cristiana in quanto tale: è compito della società civile. Aiutarli a incontrare e ad accogliere l’unico Redentore, questo, oltre che esigenza della fede di ciascuno, che deve farsi carità e volere il vero bene del prossimo, è compito proprio e non delegabile della Chiesa.
Da tutti; e dunque anche dagli ebrei. Chi si meraviglia o si lamenta del nostro auspicio che tutti i figli di Israele arrivino in Cristo alla completezza della loro vocazione originaria, vorrebbe impedirci di essere quello che siamo, perché non si può essere discepoli di Gesù di Nazareth senza desiderare che lo diventino tutti e in primo luogo i protagonisti dell’Antica Alleanza.

Una comunicazione di gioia
Nativamente evangelizzare significa annunciare un messaggio di gioia. Questa connotazione originaria è irrinunciabile: un Vangelo che si comunichi nella tristezza o porti alla tristezza è un perfetto controsenso.
È una gioia che essenzialmente nasce dalla comunione con una «salvezza avvenuta». Imbattermi nel Vangelo significa scoprire che la mia salvezza c’è già, ed è già mia se solo accetto di arrendermi ad essa. Noi – che siamo la Chiesa, animata dallo Spirito Santo, colonna e fondamento della verità (cf. 1 Tm 3,15), depositaria e custode dell’energia redentrice – portiamo agli uomini ciò di cui essi hanno oggettivamente un bisogno spasmodico, anche se spesso inconscio: la liberazione dall’insignificanza, dalla sconfitta morale, dalla catastrofe della morte. E niente è più gratificante e allietante di questo annuncio. Il mondo di oggi ha raggiunto un’eccezionale ricchezza di mezzi; però manca di questi beni essenziali: il significato dell’esistere, la certezza di poter essere perdonati, la possibilità di schivare l’annientamento. Perciò è un mondo scon solato, che senza rendersene conto anela come non mai a ciò che l’inseguita moltiplicazione degli agi non gli può procurare.

L’annuncio di un avvenimento
Bisogna restare inoltre ben consapevoli che questo annuncio di gioiosa libertà – che è annuncio di finalizzazione, di misericordia, di vita – non è primariamente e per sé comunicazione di una dottrina, di una spiegazione teorica dell’enigma dell’universo, di un complesso di regole per organizzare al meglio il nostro passaggio sulla terra; rigorosamente parlando, non è nemmeno l’annuncio di una religione fra le tante: è la notizia di un avvenimento, cioè di una realtà che è già in atto.
Ed è un avvenimento che si compendia nella concretezza di una persona: Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, crocifisso, risorto, oggi vivo, unico Salvatore e Signore. «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1): le prime parole di Marco sono il cuore e la somma del nostro messaggio.
Qui siamo arrivati al nocciolo della questione dei contenuti che dobbiamo proporre. E ci corre l’obbligo di segnalare due pericoli mortali che incombono sull’azione evangelizzatrice del nostro tempo. Tutti e due provengono dal desiderio improvvido
di «facilitare» la nostra missione accorciando arbitrariamente, per così dire, la distanza che separa la miseria dell’uomo dalla salvezza di Dio.
È la tentazione di sostituire alla pietà del Signore che vuol trasformare i cuori con la luce della verità, una nostra apparente misericordia che – illanguidendo la distinzione sia tra i fatti avvenuti e le pure idee sia tra il bene e il male – toglie alla creatura ogni ragione di purificarsi e di elevarsi secondo il disegno del suo Creatore.

Non mera proposta di valori
C’è prima di tutto l’inclinazione a risolvere il fatto salvifico – che esige il «salto» coraggioso dell’atto di fede – in una serie di valori agevolmente esitabili sui mercati mondani. Così il Vangelo non è più precipuamente il vangelo della morte redentrice,
della risurrezione, dell’universale signoria di Cristo: diventa il vangelo della solidarietà, del dialogo tra i popoli e le religioni, del progresso, della promozione umana, dell’ecologia, ecc.
A questo modo, se ci si arresta a questi valori e non si riesce a risalire all’evento pasquale, che tutti li fonda, più che evangelizzare si viene mondanizzati; più che offrire un riscatto, che ci è donato dall’alto, si dà all’umanità l’illusione che possa riscattarsi da sola con una serie di buoni propositi; più che apostoli di Gesù di Nazareth, si diventa propagandisti omologati dei miti secolaristici.

Rapporto tra l’annuncio e i valori
È indubitabile che il cristianesimo sia prima di ogni altra cosa «avvenimento»; ma è altrettanto indubitabile che questo avvenimento propone e sostiene dei «valori» irrinunciabili. Non si può, per amore di dialogo, sciogliere il fatto cristiano in una serie di valori condivisibili dai più; ma non si può neppure disistimare i valori autentici, quasi fossero qualcosa di trascurabile.
Occorre dunque un discernimento. Ci sono dei valori assoluti: tali sono il vero, il bene, il bello. Chi li percepisce e li onora e li ama, percepisce, onora e ama Gesù Cristo, anche se non lo sa e magari si crede ateo, perché nell’essere profondo delle cose Cristo è la verità, la giustizia, la bellezza.
Ci sono valori relativi, come il culto della solidarietà, l’amore per la pace, il rispetto della natura, l’atteggiamento di dialogo, ecc.
Questi meritano un giudizio che preservi la riflessione da ogni ambiguità. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale e informale a Cristo e al suo mistero. Ma se nella sua attenzione essi si assolutizzano fino a svellersi del tutto dalla loro oggettiva radice o, peggio, fino a contrapporsi all’annuncio del fatto salvifico, allora diventano istigazioni all’idolatria e ostacoli sulla strada della salvezza. Allo stesso modo, nel cristiano, questi stessi valori – solidarietà, pace, natura, dialogo – possono offrire preziosi impulsi all’inveramento di una totale e appassionata adesione a Gesù, Signore dell’universo e della storia.
Ma se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene stempera sostanzialmente il fatto salvifico nell’esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari, allora egli si preclude la connessione personale col Figlio di Dio crocifisso e risorto, e consuma a poco a poco il peccato di apostasia.

La conversione
La seconda tentazione è quella di nascondere che l’annuncio della salvezza è contestualmente anche invito alla conversione: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15).
Molte frasi e idee che oggi circolano nella cristianità sono ambigue; spesso, se sono prese nel loro senso rigoroso, sono addirittura antievangeliche. La Chiesa deve sì essere «aperta a ogni uomo» ma a ogni uomo che ha il dovere di mettersi sulla strada della salvezza; o meglio, deve adoperarsi perché ogni uomo si apra alla iniziativa del Padre. Chi è deciso a non abbandonare un’esistenza sbagliata e non si lascia affatto mettere in crisi dalla parola di Dio, non può ricevere un’ingannevole etichetta di assoluzione.
Senza dubbio nessuno perde mai il privilegio di essere il destinatario dell’azione evangelizzatrice; ma è un’azione che necessariamente include sempre anche la proposta di pentirsi e di cambiare. Nel cristianesimo il peccato può sempre essere perdonato (ed è una fortuna incredibile), ma non può mai essere implicitamente assimilato alla virtù.
L’evangelizzare non può ridursi alla conversazione amabile, che eviti accuratamente ogni argomento penoso come è sempre quello della necessaria autocontestazione.
È sempre anche l’incitamento a un radicale cambiamento di vita.
È poi da notare che la prospettiva di mutare le proprie abitudini ingiuste è così sgradevole all’uomo da riuscire impossibile se presa per se stessa. Diventa impresa fattibile e perfino facile, se è percepita entro l’adesione esistenziale a Gesù Cristo quale unico principio di salvezza. Senza l’esperienza di un amore personale per lui, la strada del ravvedimento è sempre necessaria ma è impercorribile, se invece ci si innamora del Figlio amato dal Padre, allora si fa naturale staccarsi da ciò che è difforme dal suo esempio e dalla sua volontà.

 
 
 
 
 
 
IL TIMONE – N. 55 – ANNO VIII – Luglio/Agosto 2006 – pag. 48 – 49

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