Gli americani hanno deciso: ancora quattro anni per il presidente più abortista della storia americana, paladino dei diritti gay e ai ferri corti con i vescovi cattolici per la violazione della Costituzione in materia di libertà religiosa. Ecco cosa succederà…
«Il meglio deve ancora venire», ha detto il presidente Barack Obama lo scorso 7 novembre, nel primo discorso dopo l’elezione a un secondo mandato alla Casa Bianca. Guardando ai suoi primi quattro anni da presidente, però, quel “Il meglio deve ancora venire” più che una promessa suona come una minaccia. Non parliamo tanto delle questioni economiche o internazionali, su cui pure ci sarebbe molto da dire, ma ci si riferisce soprattutto alla questione dei princìpi non negoziabili che – come insegna la Dottrina sociale della Chiesa – sono il fondamento di ogni politica volta al bene comune. Primo fra tutti, la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale: se il tema dell’eutanasia non ha ancora assunto una adeguata rilevanza negli Usa, la questione dell’aborto è invece attualissima e Obama è stato definito “il presidente più abortista nella storia degli Stati Uniti”.
Non a caso l’esercito abortista ha visto una mobilitazione senza precedenti nella campagna elettorale pro Obama, come dimostra il caso di Planned Parenthood, la più potente organizzazione abortista americana, che gestisce centinaia di cliniche per l’aborto in tutti gli Stati Uniti ed è il pilastro dell’International Planned Parenthood Federation (Ippf), una vera e propria multinazionale dell’aborto e della contraccezione e partner principale del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (Unfpa). Nel secondo dibattito televisivo con il suo sfidante repubblicano Mitt Romney, Obama ha citato Planned Parenthood ben 5 volte nel giro di un’ora, ovviamente nel quadro delle misure a protezione della salute delle donne. Del resto, uno degli argomenti della campagna elettorale era proprio quello relativo ai finanziamenti federali per le cliniche di Planned Parenthood che Romney aveva promesso di cancellare se eletto.
Così, Planned Parenthood è scesa in campo in forze, investendo – cifre fornite dalla stessa organizzazione – almeno 15 milioni di dollari a sostegno di Obama (qua 4 volte più di quanto impiegato nella campagna del 2008), concentrandosi soprattutto sugli Stati in bilico: Virginia, Ohio, Montana, Colorado, New Hampshire e Pennsylvania. In questi Stati, Planned Parenthood ha mobilitato oltre 2mila volontari che hanno bussato a 100mila porte e telefonato a 845mila famiglie.
Si è trattato di un investimento ben calcolato, perché – stando al Rapporto annuale dell’organizzazione – nell’anno fiscale chiuso nel giugno 2010 Planned Parenthood ha goduto di fondi federali pari a 487,4 milioni di dollari, il 46% dell’intero bilancio. Vale a dire che la rielezione di Obama significherà per Planned Parenthood ricavi garantiti per circa 2 miliardi di dollari – ma probabilmente questa cifra è destinata a salire – pagati con le tasse degli americani. Tradotto in aborti, stiamo parlando di circa 1milione e 300mila vite che saranno soppresse nei prossimi 4 anni, solo mantenendo costante il tragico bilancio del 2010, che ha visto raggiungere nelle cliniche di Planned Parenthod la cifra record di 330mila aborti procurati, con un incremento dell’8% rispetto all’anno dell’elezione di Obama.
Questo, ovviamente, solo per quel che riguarda le attività all’interno degli Stati Uniti; ma noi sappiamo che gli Usa delle ultime amministrazioni democratiche hanno investito molto di più per quel che riguarda la diffusione dell’aborto e della contraccezione nel mondo, convinti che sia negli interessi nazionali evitare che nascano troppe persone nei paesi poveri. A questo proposito va ricordato che l’allora presidente George Bush jr aveva invece bloccato i fondi del governo per l’Unfpa e per l’Ippf, perché c’erano le prove che sostenevano i programmi di aborti forzati in Cina, un sostegno che non hanno mai smesso di dare tanto più che con Obama alla Casa Bianca quel flusso di denaro è ripreso.
Sul fronte della famiglia non va certo meglio: Obama, nei mesi scorsi, è stato il primo presidente americano a schierarsi apertamente per il matrimonio tra persone dello stesso sesso e non c’è dubbio che questa spinta si intensificherà nel prossimo quadriennio. Nei referendum che diversi Stati hanno votato in occasione delle presidenziali, si è già visto come gli Stati Uniti siano cambiati in questi quattro anni. Per la prima volta nella sua storia, infatti, la popolazione di ben due Stati – Maine e Maryland – ha votato a favore dei matrimoni gay. Finora il riconoscimento di queste unioni in alcuni Stati era sempre avvenuto per via parlamentare o per sentenza di qualche tribunale, ma erano sempre state respinte dalle consultazioni popolari. Quattro anni di Obama però hanno facilitato in tutti i modi questo cambiamento culturale che c’è motivo di ritenere subirà un’ulteriore accelerazione. Tra l’altro, come ha documentato un’organizzazione pro-family, l’amministrazione Obama ha già portato ad abbracciare la causa gay sia Fbi che Cia, le due massime istituzioni chiamate a garantire la sicurezza dei cittadini americani: l’Fbi ha iniziato un “Programma di Orientamento Sessuale” che incentiva i gay a dichiararsi e prevede anche l’organizzazione di “gay pride” nei quartier generali dell’Ufficio investigativo federale; la Cia ha invece creato un’agenzia che funge da collegamento per gli impiegati gay, lesbiche, bisex e transgender, che include ovviamente anche manifestazioni di orgoglio.
Un terzo punto particolarmente sensibile riguarda la libertà religiosa, tema che ha visto nei mesi scorsi un durissimo scontro tra l’amministrazione Obama e il presidente dei vescovi cattolici americani, il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York. Motivo del contendere è la nuova riforma sanitaria voluta da Obama, che prevede la copertura assicurativa obbligatoria da parte dei datori di lavoro anche per aborto e contraccezione. Malgrado le ripetute richieste e proteste dei vescovi cattolici, Obama ha sempre negato la possibilità dell’obiezione di coscienza. Da qui l’accusa di violare la Costituzione americana laddove garantisce la libertà religiosa, e anzi la pone a fondamento di tutte le altre libertà. La situazione è considerata così grave che la Conferenza episcopale americana ha istituito nei mesi scorsi una commissione ad hoc per vigilare sulle violazioni della libertà religiosa negli Stati Uniti. La campagna elettorale e l’elezione del presidente, con tutti i suoi riti e il fair play di circostanza, ha provvisoriamente smorzato i toni sulla questione, ma nella lettera che l’arcivescovo Dolan ha inviato il 7 novembre a Obama per congratularsi della sua vittoria – al di là delle felicitazioni di circostanza – si auspica che il presidente voglia «perseguire il bene comune, specialmente nell’attenzione ai più vulnerabili tra di noi, cioè i non nati, i poveri e gli immigrati». Ma Dolan non si fa troppe illusioni perché la lettera continua così: «Da parte nostra noi ci ergeremo a difesa della vita, del matrimonio e della nostra prima, più ambita libertà, la libertà religiosa» (il corsivo è nell’originale). Se non è una dichiarazione di guerra, poco ci manca.
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Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, l’interesse principale dei suoi interventi nella vita pubblica si centra sulla protezione e sulla promozione della dignità della persona e per questo presta particolare attenzione ai principi che non sono negoziabili. Tra questi, oggi emergono chiaramente i seguenti: 1. protezione della vita in tutte le sue fasi, dal primo momento del suo concepimento fino alla morte naturale; 2. riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia, come unione tra un uomo e una donna fondata sul matrimonio, e la sua difesa di fronte ai tentativi di far sì che sia giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che in realtà la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo ruolo sociale insostituibile; 3. la protezione del diritto dei genitori ad educare i loro figli. Questi principi non sono verità di fede, anche se sono illuminati e confermati dalla fede; sono insiti nella natura umana, e pertanto sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nella loro promozione non è quindi di carattere professionale, ma si dirige a tutte le persone, indipendentemente dalla loro affiliazione religiosa».
(Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convengo promosso dal Partito Popolare Europeo, Città del Vaticano, 30/3/2006).
IL TIMONE N. 118 – ANNO XIV – Dicembre 2012 – pag. 18 – 19
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