Quale fu l’origine degli oratori? Sentiamolo dalle parole di chi diede un impulso straordinario
a questo istituto educativo e pastorale. «L’idea degli Oratori − scrive don Bosco nel 1862 – nacque dalla frequenza delle carceri di questa città. In questi luoghi di miseria spirituale e temporale trovavansi molti giovanetti sull’età fiorente, di ingegno svegliato, di cuore buono, capaci di formare la consolazione delle famiglie e l’onore della patria; e pure erano colà rinchiusi, avviliti, fatti l’obbrobrio della società. […]. Si notò inoltre che, di mano in mano [che] facevasi loro sentire la dignità dell’uomo, che è ragionevole e deve procacciarsi il pane della vita con oneste fatiche e non col ladroneccio; appena insomma facevasi risuonare il principio morale e religioso alla loro mente, provavano in cuore un piacere di cui non sapevansi dare ragione, ma che loro faceva desiderare di essere buoni».
L’ispiratore immediato dell’oratorio fu don Cafasso, direttore spirituale di don Bosco, che era solito la domenica fare il catechismo a dei garzoni muratori. Ma prima di lui c’è tutta l’opera educativa della Chiesa, attraverso Pio Bruno Lantieri, don Cottolengo, san Filippo Neri, sant’Ignazio di Loyola, san Francesco di Sales, san Carlo Borromeo, per citarne solo alcuni. Doveroso poi il cenno anche a Francesco Faà di Bruno, poliedrica ed interessante figura di sacerdote torinese amico di don Bosco. Egli quindi si innesta nella tradizione e sviluppa un suo percorso particolare.
La salvezza delle anime
Non aspettava che i giovani – per lo più immigranti, senza una famiglia vicino − venissero in oratorio, ma li andava a cercare nelle carceri, nelle strade, nei luoghi di lavoro, per invitarli, conoscerli, farli sentire amati. La parrocchia, invece, era una struttura limitata ad alcune iniziative e aperta solo per alcune ore.
Il primo oratorio salesiano nasce l’8 dicembre 1841 con l’invito a Bartolomeo Garelli – un muratore di 16 anni povero, orfano, analfabeta − ad ascoltare la santa messa e con la recita di un’Ave Maria. «Tutte le benedizioni piovuteci dal cielo sono frutto di quella prima Ave Maria detta con fervore», dirà don Bosco. “Charitas Christi urget nos” («Ci spinge l’amore di Cristo») e “da mihi animas, coetera tolle” («Dammi le anime, prenditi il resto») sono i due capisaldi che mossero il nostro santo. Si prodigava per la salvezza delle anime per amore a Cristo, perché infiammato dal Suo amore. E il suo sistema educativo coniugava ragione e religione.
Catechesi, gioco, sacramenti
Così, partendo dall’oratorio estivo – il cuore dell’esperienza educativa −, dove si insegnava prima la catechesi storica e dottrinale unita alla pratica dei sacramenti, poi il gioco, e poi si passava all’istruzione, don Bosco si preoccupava di formare «dei buoni cristiani e degli onesti cittadini», proteggendoli dall’ozio e dalle cattive compagnie, quindi dal peccato. Da qui sono nate le case per ospitare i giovani senza tetto e offrire vitto e vestiario, i laboratori professionali, le scuole interne, fino ai ginnasi. Da qui è nato in don Bosco – il primo vero “sindacalista” − il desiderio di trovare un lavoro a questi giovani, selezionando il datore di lavoro, per garantire loro il rispetto, la sicurezza e la giusta mercede.
Tutti gli altri successori, a partire da don Michele Rua, mantennero fede a questo schema: affiancare un oratorio a ogni parrocchia (e in seguito ai seminari diocesani). Per la costruzione del quale egli coinvolgeva autorità pubbliche, laici facoltosi e non (famose le sue lotterie), avvalendosi nel contempo di sacerdoti, giovani e adulti in qualità di validi catechisti, insegnanti e animatori per i giochi, sempre coinvolti direttamente nelle diverse iniziative.
Il gioco, infatti, per don Bosco costituiva un momento importante, non solo di divertimento, ma anche di conoscenza ed educazione. A tal punto che continuò a parteciparvi anche in età avanzata. â–
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