La medicina e i luoghi di cura hanno una madre comune: la Chiesa. Il mondo pagano conosceva forme primitive di assistenza, ma solo con i grandi santi cattolici nascono i primi ospedali. Che oggi avvolgono il mondo in una rete di carità instancabile
Tutti i popoli hanno una medicina: c’è la medicina indiana, la medicina cinese, la medicina africana.
Si tratta, per lo più, di mescolanze tra credenze, superstizioni e magia, visioni cosmologiche di vario tipo e conoscenze empiriche, nate da una qualche osservazione della realtà. Scrive Michelangelo Peláez: «Le pratiche mediche più antiche erano una mescolanza di interventi empirici, di cui si ignorava la reale causa della efficacia o inefficacia, e di magia, che attribuiva il motivo del dolore e della malattia a forze esterne misteriose, dominabili con procedure enigmatiche riservate ad alcuni membri della tribù i quali, dovutamente iniziati, godevano di speciali poteri curativi».
La medicina fra cultura ellenica e cristianesimo
La medicina come la conosce l’Occidente nasce nel mondo greco, con Ippocrate e la sua scuola: il «rifiuto ippocratico di un intervento divino nel processo della malattia, e di conseguenza il rifiuto di ogni terapeutica magica mirante a calmare la collera divina, coesiste con il dichiarato rispetto della divinità. Il medico ippocratico sostituisce ad una giustizia divina, più o meno oscura, un ordine dell’universo, divino e naturale, che rende conto di tutte le malattie, compreso il male detto “sacro” (l’epilessia), considerato dai contemporanei più divino degli altri. In Ippocrate si osserva un adeguamento del divino al naturale, nel senso che il divino si manifesta nella regolarità stessa delle leggi naturali» (Pelàez).
Il cristianesimo erediterà e porterà a compimento questa visione del mondo, sia in nome del Dio Logos, che ha creato un corpo che obbedisce, come l’universo, a leggi ben precise; sia grazie alla sua valorizzazione del singolo individuo (indipendentemente dalla sua origine o ricchezza), dell’amore e del dolore (che sono cifre uniche, proprie solo della Tradizione cristiana e non presenti nella cultura greca). Così, a salvare e rilanciare in Italia ed Europa il patrimonio antico della medicina greca saranno il monaco Cassiodoro e la sua scuola: di qui una tradizione continua di studi che ha prodotto, per esempio, l’anatomia, a partire dal Medioevo (Mondino de Liuzzi), e poi via via una sempre maggior comprensione della “macchina” del corpo umano.
Un mondo senza luoghi di cura
Una cosa è la medicina, però, un’altra è l’ospedale: se la proprietà della medicina moderna, figlia di quella greca e di quella cristiana, è l’essere fondata sulla ricerca razionale e sulla riduzione degli scopi (il medico deve cercare di curare il corpo, senza però dimenticare che oltre ad esso, e insieme ad esso, c’è l’anima), la novità più grande dell’apporto cristiano sta nell’istituzione di un luogo in cui poveri, malati, emarginati, pellegrini, orfani trovino assistenza e aiuto.
Nel mondo antico, pre-cristiano, esistevano strutture ospedaliere in cui praticare la medicina? No. In buona parte del mondo animista, ancora oggi, la cura è affidata allo stregone, che spesso, dietro un pagamento, offre pratiche magiche di allontanamento del malocchio o simili. Il malato, però, è di norma un maledetto: accade non di rado che molte patologie, come la lebbra, portino non alla cura, ma all’emarginazione e alla cacciata dalla comunità. Nel mondo induista, l’idea stessa di ospedale non può affermarsi per una serie di credenze ostative: gli uomini non sono tutti “uguali” (esistenza delle caste); il corpo e la materia non sono realtà positive; il malato altro non fa che scontare, giustamente, le colpe delle vite precedenti (si pensi al concetto di reincarnazione). Così né l’Africa, né l’America, né l’India – tutte non cristiane – hanno prodotto l’ospedale.
Il discorso si fa più complesso, ma solo apparentemente, se ci spostiamo nelle migliori civiltà pre-cristiane: in Grecia o a Roma. Ci sono alcune strutture ospedaliere in queste culture? Sì, ma in termini molto vaghi. Gli storici affermano che le strutture “ospedaliere” greche erano: poche, per lo più a pagamento (quasi delle cliniche private), limitate (per esempio Platone insegnava che erano degni di cura soltanto i cittadini liberi – non certo gli schiavi – e soprattutto coloro che potevano guarire sicuramente). Per questo lo storico dell’ospedale Ray Porter, come tanti altri, arriva a concludere: «Nella Grecia classica non vi erano ospedali». Altri, come Scarano, Cosmacini, Sironi, Krug ribadiscono che l’ospedale come lo intendiamo noi, come ospitalità a 360 gradi, nasce solo con il cristianesimo.
Quanto a Roma antica, Alberto Arcioni comincia così un suo studio sul tema: «Sia nella Roma repubblicana che in quella imperiale una vera ospedalità, almeno come la intendiamo noi oggi, non si ebbe mai», in quanto «l’attenzione alla salute, in tutte le sue forme, veniva considerata come un fatto utilitario e non come un impulso caritatevole a chi soffriva»; «queste deficienze nell’assistenza sanitaria nell’antica Roma fanno invero contrasto con la grande cura che invece i romani mettevano, anche attraverso saggi ordinamenti, nel trattamento dell’igiene personale, nell’uso delle acque, nella vigilanza annonaria, nella diffusione dell’esercizio fisico».
Vi erano anche, è vero, delle strutture che potremmo definire impropriamente ospedali, ma erano luoghi per la «riparazione» degli schiavi, luoghi a pagamento, luoghi sacri, in cui però mancava «lo spirito di aiuto per i sofferenti » che sarebbe stato portato, conclude l’Arcioni, «con l’avvento e il diffondersi del cristianesimo». Fino a fare di Roma, capitale della Cristianità, il luogo dei primi ospedali dell’Occidente, con Agnese, Fabiola, Marcella; e poi la patria, dopo il Mille, di «meravigliosi ospedali che per grandiosità, qualità di assistenza medica, aspetto e funzionalità architettonica, primeggiarono in tutto il mondo».
Carità cristiana e ospedale
Ospedale fa dunque rima con carità, e carità è quella forza di amare il prossimo che l’uomo non riceve da se stesso, ma solo dall’incontro con Cristo: per questo, per secoli, gli ospedali sono opera di volontariato, luoghi in cui migliaia e migliaia di persone immolano la loro vita, rinunciando a una vita esterna, sovente anche a una propria famiglia, per stare con i sofferenti, con i più miseri, visti come “altri Cristi”, notte e giorno. Luoghi in cui la carità stimola la ricerca, e la pratica permette lo sviluppo della medicina.
Lo Stato, in Europa, comincerà a gestire gli ospedali, pagando il personale, molto tardi: dopo che san Giovanni di Dio, san Camillo de Lellis, san Vincenzo de Paoli e tanti altri santi e sante avranno sparso i semi della loro carità per ogni luogo. Dopo che l’abate Charles-Michel de l’Épée, nel Settecento, sulla scia di religiosi a lui precedenti, avrà inventato la lingua dei segni e il metodo educativo per i sordomuti, dando vita a quegli istituti per sordomuti che saranno gestiti, sino al Novecento, dalla Chiesa cattolica.
Anche in epoca più recente, sarà la carità cristiana prima a spingere Florence Nightingale a creare la figura dell’infermiera moderna, dopo aver imparato alla scuola delle Figlie della Carità di san Vincenzo, poi a venire incontro a tutti quei nuovi bisogni che gli Stati non sono capaci, né motivati, a incontrare: penso al primo ricovero per malati di Aids, fondato a New York nel 1982 dalle suore di madre Teresa, perché non si trovava nessun altro, neppure a pagamento, disponibile a rischiare il contagio per accompagnare alla morte persone consumate dal male. Penso alle comunità di recupero per tossicodipendenti, nate quasi sempre dall’opera volontaria e gratuita di sacerdoti o di laici con una forte spinta religiosa; oppure, per fare un altro esempio, ai Cottolenghi di San Giuseppe Cottolengo e di don Orione, aperti ad accogliere i malati più gravi, quelli cronici, quelli a cui gli ospedali di Stato non sanno assicurare le necessaria assistenza.
L’ospedale, figlio, come l’università, della civiltà cristiana medievale, viene esportato anche fuori dalla Cristianità, attraverso i missionari: uomini che partono per portare la fede e che, come Cristo che sfama i suoi discepoli e guarisce i malati, portano con sé anche medicina e strutture di carità. È san Daniele Comboni, per fare un solo esempio, colui che più di ogni altro ha insegnato all’Africa educazione, istruzione, sanità.
I frutti di questo millenario impegno della Chiesa oggi si possono misurare nei numeri, davvero imponenti, delle strutture sanitarie cattoliche, che nel mondo ammontano a 121.564. Tra queste, spiccano gli ospedali veri e propri, dove dentro c’è un po’ di tutto: dalla struttura all’avanguardia – in Italia basta citare il polo pediatrico di Roma Bambino Gesù o la Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo – al piccolo centro di frontiera in Africa che fornisce l’assistenza di base. I numeri della sanità “cattolica” si dividono abbastanza equamente tra i principali continenti: in America sono 1.694 gli ospedali, in Africa 1.150, in Asia 1126, in Europa 1.145, dove l’Italia fa la parte del leone con 129 strutture sanitarie. Ma la realtà delle cure cattoliche è anche molto più ricca: con 18.179 strutture cosiddette ambulatoriali (oltre 10mila divise tra Africa e Americhe) che danno assistenza ai più svantaggiati e ben 17.223 strutture residenziali e assistenziali destinate alla terza età o ai disabili. Di quest’ultime ben 8mila sono concentrate in Europa e quasi 1.600 solo nel nostro Paese.
Completano l’elenco del welfare ispirato dalla Chiesa quasi 10mila orfanotrofi, oltre 11mila asili per i più piccoli, 15mila consultori familiari e quasi altre 60mila strutture che forniscono assistenza sociale e prestazioni di vario tipo (fonte: Il Sole 24 ore del 15 febbraio 2013).
Per saperne di più…
Francesco Agnoli, La grande storia della carità, Cantagalli, 2013.
Alberto Arcioni, L’ospedalità nella Roma antica, in Lazio ieri e oggi. La rivista di Roma e della sua regione, aprile 2013.
Giorgio Cosmacini, L’arte lunga. La storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, 2009.
Michelangelo Pelàez, www.disf.org/voci/84.asp
IL TIMONE N. 126 – ANNO XV – Settembre/Ottobre 2013 – pag. 39 – 41
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