Uno dei luoghi comuni su san Francesco è quello che lo vede precursore del moderno pacifismo. Niente di più falso. Il Poverello partecipò anche alla Crociata. E chiedeva per i frati denigratori dei confratelli un trattamento speciale…
«Il nome Francesco ha un significato profondo dal punto di vista della spiritualità, dell’impegno con i poveri, del rapporto dell’uomo con la natura e con la vita». «Siamo felici che abbia scelto il nome di una delle figure più straordinarie della cristianità e della storia del mondo». «Nessun Papa ha mai avuto il coraggio, perché di vero coraggio si tratta, di chiamarsi Francesco». «Un Papa che sceglie il nome di Francesco ispira fiducia». «Il nome Francesco significa miracolo». «Se Papa Bergoglio ha scelto il nome di Francesco, non lo ha fatto certo a caso». Da Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel per la Pace del 1980, a monsignor Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi, e passando per personaggi della cultura, politici, persino rockstar, sono numerosi i commenti che hanno sottolineato – come clamorosa «novità» del pontificato che ha preso da poco il via – proprio quel nome, Francesco. Che tutti hanno immediatamente collegato al santo di Assisi. È stato lo stesso successore di Ratzinger, il 16 marzo 2013, tre giorni dopo la sua elezione, a confermarlo alle migliaia di giornalisti presenti a Roma per il Conclave e accolti per una udienza particolare nell’Aula Paolo VI. Ha scelto per sé questo nome proprio con chiaro riferimento al figlio della nobile provenzale Pica Bourlemont e del ricco mercante assisiate di stoffe e spezie Pietro Bernardone dei Moriconi. La madre volle battezzarlo con il nome di Giovanni (in onore dell’apostolo), ma il padre gli cambiò il nome in Francesco, inusuale per quei tempi, come omaggio alla Francia, che aveva fatto la sua fortuna finanziaria.
Un cocktail micidiale
L’elezione dell’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio, primo Papa gesuita, primo Papa d’Oltreoceano e primo a chiamarsi Francesco, ha rilanciato il dibattito sulla reale e concreta figura storica del Poverello di Assisi (1182-1226), il santo più popolare ma anche più misconosciuto, prigioniero di un cliché duro a morire: un cocktail micidiale fatto di buonismo, pauperismo, pacifismo, ecologismo, ecumenismo, che di fatto ci presenta quasi una macchietta più che un gigante della fede, quale realmente era. «Non so se san Francesco ha mai pensato che un giorno il suo nome sarebbe stato legato al ministero petrino», dice Claudio Ricci, sindaco di Assisi. Ma chissà, aggiungiamo noi, se il Poverello ha mai pensato che un giorno – com’è convinzione diffusa oggi anche tra molti cattolici e prelati! – l’avrebbero considerato un pittoresco rivoluzionario, un anticapitalista ante litteram, il primo “no global” o, peggio, una specie, con tutto il rispetto, di “scemo del villaggio” che ride e balla sempre e passa il suo tempo a parlare con gli uccelli o ad ammansire lupi.
La realtà storica, a giudicare dalle fonti documentate e senza gli occhiali dell’ideologia, è ben diversa. E smonta tanti luoghi comuni che incrostano la figura luminosa del Santo delle stimmate, cresciuti a partire dalla fine del XIX secolo, quando prese il sopravvento una lettura della sua figura di stampo anticattolico, laicista, tesa a costruirne un’immagine falsificata. Ciò che emerge invece, da un esame attento e onesto della vita del Poverello, da un’analisi dei suoi scritti, dalle testimonianze dei contemporanei è che egli non fu buonista, non fu pacifista, non fu contro le Crociate, non fu ecumenista, non fu filo-islamico, non fu ecologista, non fu libertario, non fu rivoluzionario, non fu egualitario, non rifiutò la cultura e non fu pauperista.
Né pacifista né contro le Crociate
Nell’opinione comune, alimentata dalla “cultura dei rotocalchi” e dei talk show televisivi, san Francesco è il precursore del moderno pacifismo, promotore del disarmo unilaterale e dell’obiezione di coscienza, sia alle armi che alla pena di morte.
Ma il Serafico predicava una pace che non è quella degli uomini, ma quella spirituale, assicurata dalla conversione della creatura al Creatore. Cioè la pax francescana non è mai stata la pace che l’uomo trova in se stesso, ma la pace che l’uomo trova in Dio. Nel concreto, non risulta che Francesco abbia mai contestato il servizio militare: ben sapeva che combattere una guerra giusta non è contrario allo spirito caritatevole e pacifico del Cristianesimo. Al punto che amava presentarsi come «soldato di Cristo» o «araldo del gran Re». La regola francescana, in effetti, condanna non la guerra come tale, ma solamente le guerre ingiuste, nella scia della tradizione della Chiesa. San Francesco non può essere equiparato all’opportunistico “arrendiamo” degli odierni esaltati pacifisti che, inalberando la multicolore bandiera della pace (inquietante simbolo sincretista), promuovono marce e manifestazioni sempre a senso unico (dove sono i cortei contro la Cina, la Corea del Nord e Cuba comuniste, che violano in continuazione le norme più elementari della convivenza?).
Non essendo pacifista, Francesco non fu neppure contrario alle Crociate. Anzi, risulta che provasse un sincero entusiasmo per esse e ammirazione per le cavalleresche imprese. Partecipa alla quinta Crociata, proclamata nel 1213 da Innocenzo III, per poter assistere caritatevolmente i crociati nei pericoli fisici e spirituali cui andavano incontro e soprattutto predicare ai musulmani; tutta la sua vita è segnata dall’ansia non di “dialogare” accademicamente con i musulmani, ma di “convertirli” a Gesu Cristo.
Francesco non si limita a considerare la Crociata lecita. Il santo di Assisi la chiama «la santa impresa», giudicandola un intervento di legittima difesa militare di quei luoghi sacri e di quei cristiani del Vicino Oriente, sin dai primi secoli evangelizzati dal sangue dei martiri. I primi dell’epoca francescana sono san Daniele e compagni, trucidati in Marocco poco dopo la morte del santo perché, malgrado gli avvertimenti delle autorità islamiche, non vollero saperne di “dialogo” e tentarono di convertire chi capitava loro a tiro. Esemplare il fatto che Francesco giustificò la Crociata proprio davanti al sultano musulmano dell’Egitto. Ed è completamente falsa la ricostruzione secondo cui fece una scelta “missionaria” sostitutiva della Crociata: era inconcepibile una contrapposizione tra Missione e Crociata. La vocazione del missionario e quella del crociato erano legate, grazie alla comune prospettiva della cristiana testimonianza col pellegrinaggio e la disposizione al martirio. Giacomo da Vitry, testimone dei fatti, ha scritto che Francesco di fronte al sultano d’Egitto ha avuto un atteggiamento di perfezione apostolica. La sua predica riassume e riunisce «i tre elementi-chiave necessari per il trionfo del cristianesimo ». Il primo, il «rinnovamento morale e spirituale attraverso una vita di ascesi, di semplicità e di umiltà »; poi «la predicazione, la propagazione della parola efficace, parola che infiamma le folle e le porta alla conversione»; e infine (altro che imbelle pacifismo!) «il confronto (militare) coi saraceni, mirante a soccorrere la Chiesa orientale desolata che cerca la sua liberazione».
Vera e falsa pace
Il caratteristico augurio di pace – «Pax et bonum, Pace e bene» – era il saluto con cui Francesco si presentava e chiedeva ai suoi seguaci di presentarsi. Ancor oggi è o dovrebbe essere il segno distintivo di tutti gli Ordini francescani e della loro predicazione, e compare spesso scritto sulle porte o sulle pareti dei conventi.
Ma di che pace si tratta? Essenzialmente la pace portata da Cristo, la pace dello Spirito, conseguente al fatto che siamo stati tutti riconciliati con il Padre; perciò non possiamo più essere nemici neppure tra noi. La radice di questa pace è lo stato di grazia, che ci è stato donato in virtù della Croce di Cristo. Francesco unisce perciò sempre il tema della pace con quello della salvezza. Essere “figli della pace” ed essere “desiderosi della salvezza eterna” sono due aspetti intimamente connessi e inseparabili. Riusciva così a riconciliare in un saldo patto di vera amicizia moltissimi che prima, in discordia con Cristo, si trovavano lontani dalla salvezza. Siamo, come si vede, distanti anni luce da quell’irenismo che non si preoccupa più di distinguere il vero dal falso, il bene dal male e che, proteso ad addolcire i guai della vita presente, perde di vista il nostro destino definitivo, bandendo da sé ogni discorso sulla necessità della conversione interiore e ogni richiamo alla Croce. Invece Francesco non dimentica mai di combattere il peccato, l’unico grande nemico della pace e della salvezza. Nel Cantico delle creature, così citato da tutti ma spesso ignorato in tutti i suoi passaggi, esclama: «Guai a quelli che morranno nelle peccata mortali»! Non si può cioè predicare la pace covando in cuore risentimenti, rancori, ideologie di parte, perché la pace è frutto della conversione interiore: per questo non può essere sinonimo di resa di fronte al male e di rinuncia a difendere i valori di verità, di giustizia, di libertà, che caratterizzano l’esperienza umana alla luce di Cristo.
Il «pugile» di Firenze
Che Francesco non fosse suadente, paziente, colloquiale, amabile, dialogante, comprensivo, sommamente buono, paterno e delicato… lo dimostra un aneddoto che vale la pena conoscere. Ecco cosa si racconta nella Vita seconda di Tommaso da Celano: «Come ogni animo ripieno di carità, anche Francesco detestava chi era odioso a Dio. Ma fra tutti gli altri viziosi, aborriva con vero orrore i denigratori, e diceva che portano sotto la lingua il veleno, col quale intaccano il prossimo… Un giorno udì un frate che denigrava il buon nome di un altro e, rivoltosi al suo vicario, frate Pietro di Cattaneo, proferì queste terribili parole: “Incombono gravi pericoli sull’Ordine se non si rimedia ai detrattori. Ben presto il soavissimo odore di molti si cambierà in un puzzo disgustoso se non si chiudono le bocche di questi fetidi. Coraggio, muoviti, esamina diligentemente e, se troverai innocente un frate che sia stato accusato, punisci l’accusatore con un severo ed esemplare castigo! Consegnalo nelle mani del pugile di Firenze, se tu personalmente non sei in grado di punirlo”. Chiamava “pugile” fra Giovanni di Firenze, uomo di alta statura e dotato di grande forza».
Non erano minacce a vuoto, visto che quel tale nerboruto fra Giovanni, entrato nell’Ordine e in fama di sante virtù, non esitava a rimettersi, su comando, in azione. E i pugni sapeva usarli così bene sui confratelli riottosi che uno storico dell’epoca, il Salimbene, nella sua Chronica, lo chiama «spietato carnefice ». A documentare il carattere volitivo di Francesco valga anche l’episodio in cui si narra di un fraticello, finto devoto e falso umile che, invitato a confessarsi per due volte a settimana a espiazione del proprio orgoglio, si rifiutò. Venne cacciato dall’Ordine senza tanti complimenti e terminò la sua esistenza terrena «da malfattore come era in realtà» (Jacopo da Varazze, Legenda aurea).
«L’unica ricchezza è Cristo»
In conclusione, e tornando alle riflessioni iniziali sul rapporto tra papa Bergoglio e il santo di Assisi, per il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, la scelta del nome Francesco esprime «semplicità e testimonianza evangelica». Precisa Julian Carron, presidente della fraternità di Comunione e Liberazione: «Con la scelta del nome, Francesco, il nuovo Papa ci indica che non ha altra ricchezza che Cristo». Concetto ribadito da Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture di matrice cattolica: «A prendere il nome di Francesco ci vuole coraggio, il coraggio di chi proclamando pubblicamente la propria umana povertà dice che l’unica ricchezza della Chiesa è Cristo». Ibrahim Faltas, padre francescano della Custodia di Terra Santa, si mostra ottimista e lancia quasi una sfida: «Papa Francesco aprirà una nuova pagina, una nuova era per la Chiesa. Oggi l’uomo ha bisogno di un altro Francesco, e lo Spirito Santo ha realizzato questo sogno donando alla Chiesa il nuovo Papa».
Ma resta importante capire che, ogni volta che lo si cita, si deve sapere chi è il «vero» Francesco: è questo il senso, e il compito, di questo dossier.
IL TIMONE N. 124 – ANNO XV – Giugno 2013 – pag. 36 – 38
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