Sul cosiddetto “matrimonio” tra omosessuali
Alcuni Paesi dell’Europa occidentale – come Spagna, Olanda e Inghilterra – hanno previsto nei loro ordinamenti la possibilità per due omosessuali di contrarre matrimonio. Questa scelta finisce per stravolgere i caratteri essenziali di un istituto, quale il matrimonio, che è stato sempre caratterizzato, per natura, dalla eterosessualità dei coniugi.
Già i grandi giuristi romani – che certo non erano cristiani (all’epoca) e ben conoscevano l’omosessualità – affermavano che è la natura ad insegnare che il matrimonio è l’unione di un uomo e di una donna, la maris atque feminae coniunctio.
E non può non farci riflettere la circostanza che lo stesso principio, dopo secoli e secoli, è stato richiamato, anche in occasioni recenti, dalla giurisprudenza di tanti tribunali, tra loro anche molto diversi, come la Corte di giustizia delle Comunità europee e, da ultimo, il Tribunale di Latina. Consentire a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio significa, dunque, manipolare e stravolgere il carattere essenziale dell’istituto.
Solo un’impostazione relativista e positivista ammette che il legislatore possa fare tutto ciò che vuole: in questa prospettiva, il legislatore potrebbe considerare l’estate come l’inverno, le penne biro come apparecchi radiotelevisivi o gli alberi come palazzi (e viceversa).
Se si ritiene, invece, come è ragionevole, che il legislatore sia tenuto a rispettare la natura delle cose, come emerge nella realtà dei fatti, il matrimonio tra persone omosessuali costituisce una vera e propria contraddizione con quanto suggerito dalla stessa natura. Su questa posizione è attestata la Costituzione italiana, il cui articolo 29 solennemente proclama: «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Questa disposizione sta, dunque, a significare che in Italia la Carta costituzionale – richiamando i dati tradizionali offerti dalla scienza del diritto per la determinazione del concetto di matrimonio e riconoscendo che la famiglia è una società naturale – impedisce l’introduzione di un “matrimonio” tra omosessuali.
Sul riconoscimento pubblico delle convivenze more uxorio e delle unioni tra omosessuali
Consapevoli di ciò, alcuni politici hanno presentato proposte di legge per dare riconoscimento pubblico alle convivenze, senza però permettere agli omosessuali di sposarsi, sulla scorta del modello adottato da alcuni Stati, tra i quali la Francia con il Pacte civil de solidarité (cosiddetti Pacs) o la Germania con i contratti di convivenza registrati (eingetragene Lebenspartnerschaften) stipulati da persone omosessuali. Anche questo orientamento presta il fianco a molteplici critiche.
L’analisi dei progetti di legge presentati nel corso dell’ultima legislatura dimostra come i tentativi di dare alle convivenze rilievo pubblico siano ispirati dall’intento di assicurare ad esse i benefici economici previsti per il matrimonio e non certo, come taluni vorrebbero far credere, da esigenze di tolleranza, di tutela di diritti di libertà o di diritti fondamentali che, quanto alle convivenze di qualsiasi tipo, sono già oggigiorno assicurati nelle moderne democrazie.
La famiglia fondata sul matrimonio gode di un regime speciale, diverso da quello ordinario. Esso dà vita a privilegi, che gravano in modo significativo sulla spesa pubblica e, dunque, su tutta la comunità, che pure merita tutela.
I privilegi e le garanzie si giustificano in ragione dell’impegno che i coniugi assumono con il matrimonio e della funzione che la famiglia ha in seno alla società: fondamento della vita sociale e civile, secondo una concezione radicata nel tempo, che già Cicerone esprimeva con la locuzione principium urbis et quasi seminarium rei publicae. La famiglia costituisce, sotto ogni profilo, il luogo privilegiato di sviluppo e benessere della persona nella sua irripetibile identità e, dunque, di crescita della stessa comunità, intesa come insieme di uomini. Come sottolineavano ancora i romani – ecco, dunque, l’altro profilo da considerare – dall’unione di un uomo e di una donna discende la procreazione e, conseguentemente, l’educazione della prole.
Se la famiglia “funziona”, crescono – come regola – cittadini consapevoli non solo dei loro diritti, ma anche dei loro doveri, i quali non solo lavoreranno per pagare le pensioni degli anziani, ma svolgeranno tutte quelle funzioni necessarie affinché la società prosegua la sua storia e una comunità continui a vivere.
Per il resto, al di là della doverosa equiparazione del regime dei figli nati fuori dal matrimonio rispetto a quelli nati nell’ambito di esso – equiparazione che la Costituzione riconosce espressamente, nei limiti compatibili “con i diritti dei membri della famiglia legittima” – non c’è ragione per cui la collettività dovrebbe premiare convivenze che costituiscono il frutto di scelte meramente private.
Nel caso di quelle more uxorio, risulta decisiva la volontà dei partner, i quali rifiutano di sottoporsi agli obblighi derivanti dal matrimonio – che sono garantiti talora anche da sanzioni penali – e dunque versano, per propria scelta, in una situazione profondamente diversa da quella dei coniugi. Quanto alle unioni omosessuali, sussistono evidenti e obiettive ragioni; ragioni difficili a riconoscersi solo da parte di una società resa asfittica dal relativismo imperante.
In senso contrario non può invocarsi il principio di eguaglianza.
Anzi, dal momento che tale principio risulta violato non solo quando si dà un trattamento diverso a situazioni eguali, ma anche quando si impone la stessa disciplina a situazioni diseguali, esso esige che la famiglia, le convivenze more uxorio e le unioni omosessuali siano assoggettate a tre regimi differenti.
BIBLIOGRAFIA
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IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 50 – 51
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