«Padre, non imputare loro questo, perché non sanno quello che stanno facendo». Molti contestano l’autenticità di questo versetto. Ma è riecheggiato in altri testi del I secolo, a conferma che è stato veramente pronunciato da Cristo in croce. L’ennesima riprova della storicità dei Vangeli
Due grossi problemi gravano sul versetto evangelico di Luca 23,34a. Uno riguarda il suo significato preciso e l’altro, ancor più grave, riguarda la sua stessa autenticità, dato che è assente in una parte della tradizione manoscritta. La frase di Gesù crocifisso è generalmente tradotta: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Secondo la concezione maggioritaria, abbracciata da molti commentatori (anche da Nestle e Aland, gli editori di una edizione critica del Nuovo Testamento), questo versetto sarebbe un’aggiunta posteriore. Per contro, io invece sospetto che questo versetto, invece che esser stato aggiunto in seguito in una tradizione in cui non esisteva all’inizio, sia stato piuttosto espunto da una tradizione manoscritta in cui esso era presente originariamente.
Esaminiamo dunque il versetto «Padre, perdona loro [aphes autois], perché non sanno quello che fanno». Il verbo aphiemi, di cui aphes è una forma, ricorre anche nel Padre Nostro nella frase «rimetti [aphes] a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo [aphiemen] ai nostri debitori» e suggerisce l’idea del «lasciare andare» (un debito, ma anche il proprio risentimento). Aphiemi è anche il verbo con cui Gesù rimette i peccati ai peccatori. Perdonare propriamente implica che il perdonato sia responsabile dell’offesa compiuta e l’abbia compiuta scientemente, e poi abbia chiesto perdono. Qui invece Gesù afferma espressamente che i suoi crocifissori non sanno affatto quello che stanno facendo, dunque non sono responsabili (si erano accorti di questo già Anfilochio e lo Pseudo Giustino). Quindi aphes qui sembra significare «non imputare nemmeno a colpa ». Gesù chiede al Padre che la sua uccisione – l’uccisione del Figlio di Dio – non sia nemmeno imputata a colpa a coloro che lo stanno uccidendo, poiché essi non sono consapevoli dell’enormità del crimine che stanno commettendo. L’intera frase di Gesù sembra dunque togliere responsabilità morale ai suoi uccisori. È per questo motivo che io sospetto che questo versetto sia stato espunto, probabilmente per antisemitismo, da una tradizione manoscritta in cui originariamente esso era presente, piuttosto che aggiunto in seguito.
Ma ci sono altri argomenti che mi fanno ritenere che Gesù abbia effettivamente pronunciato queste parole e che Luca nel suo Vangelo le abbia fedelmente riportate. Procediamo con ordine. Questo versetto, assente in una parte della tradizione manoscritta – e in particolare nel papiro P75 e nei codici Vaticano (B) e Sinaitico dopo una correzione (Sc), oltre che in versioni siriache e copte –, è invece presente nella versione originale del codice Sinaitico, in altri codici e in molti autori del II-III secolo quali Marcione, Taziano, Egesippo, Ireneo, Clemente, Origene, Ippolito, Eusebio, nonché in tutti i manoscritti della Vetus Latina e della Vulgata (la traduzione latina della Bibbia apprestata da s. Gerolamo). La sua assenza in un papiro antico è controbilanciata dalla sua presenza in autori almeno altrettanto antichi se non più. Inoltre, come già s. Giovanni Crisostomo e s. Ignazio avevano osservato, la preghiera di Gesù per i suoi assassini in Luca 23,34a corrisponde appieno al precetto dato da Gesù stesso in Luca 6,28, di pregare per i propri persecutori. Uno degli argomenti più forti in favore dell’autenticità di Luca 23,34a è che in almeno due passi degli Atti degli Apostoli questo versetto è volutamente e molto chiaramente riecheggiato. Dunque l’autore degli Atti, quando scriveva – in ogni caso ben prima del papiro P75 – trovava già questo versetto ben presente in Luca.
Il primo riecheggiamento intenzionale è nelle parole di s. Stefano protomartire, il cui martirio è modellato sulla morte di Gesù. Appena prima di morire lapidato, Stefano (in Atti 7,60) riecheggia evidentemente proprio le parole di Gesù in Luca 23,34a: «Signore, non imputare loro questo peccato».
Ma Luca 23,34a è riecheggiato non solo da Luca negli Atti, bensì anche da Egesippo nel II secolo (ap. Eus. HE II 23), nel resoconto della morte dell’apostolo Giacomo, lapidato da dei Giudei. E qui Egesippo non riecheggia solo la prima parte di Luca 23,34a (come avviene in Atti 7,60), ma anche la seconda parte, relativa all’ignoranza degli uccisori. Infatti, come riferisce Egesippo, Giacomo dice: «Ti prego, Dio Padre, non imputare loro questa colpa, poiché non sanno quello che fanno».
È altamente improbabile che un revisore del testo di Luca a un certo momento abbia aggiunto il v. 34 (per influsso di Atti 7,60):
1) perché gli echi di Luca 23,34a negli Atti sono almeno due, come mostrerò subito;
2) perché è il martirio di Stefano a imitare quello di Gesù e non viceversa.
Vengo allora alla seconda eco intenzionale di Luca 23,34a. Essa si trova in Atti 3,17, dove Pietro parla ai Giudei di Gerusalemme (nel 30 d. C). Pietro, come Gesù in Luca 23,34a, afferma che i fautori della morte di Cristo non sapevano quel che facevano (la stessa dichiarazione di ignoranza si trova in altri discorsi di Pietro negli Atti e in uno di Paolo in Atti 13,27-28, e in tutti questi passi si riecheggia ciò che Gesù dice in Luca 23,34a). Pietro, dopo avere dichiarato in Atti 2,23.36: «Voi l’avete inchiodato a una croce per mano di empî e l’avete ucciso […] sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Messia questo stesso Gesù che voi avete crocifisso » e dopo aver detto in Atti 3,13- 15: «Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato […] e avete ucciso», in Atti 3,17 avanza per gli uccisori di Gesù la scusante del «non sapere», esattamente come Gesù stesso dalla croce: «Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza [agnoia], come anche i vostri capi». Nondimeno, egli richiede loro il pentimento per quello che hanno fatto, garantendo (evidentemente per conto del Signore) che al pentimento seguirà il perdono: «Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e giungano i tempi della consolazione […] i tempi della restaurazione universale, di cui Dio ha parlato per bocca dei santi profeti da tempo immemorabile […] voi siete i figli dei profeti e dell’alleanza che Dio stabilì con i vostri padri» (Atti 3,19-21.25).
La presenza di tanti e importanti echi di Luca 23,34a negli Atti degli Apostoli, insieme anche ad alcune parole delle versioni siriache, e alla consonanza stessa con l’esortazione di Gesù nel vangelo di Luca a pregare per coloro che ci fanno del male, conferma che il v. 34a è stato veramente pronunciato da Gesù, e riportato da Luca, e poi riecheggiato negli Atti e in Egesippo. Solo successivamente esso fu espunto dalla tradizione manoscritta, poiché sembrava scagionare gli uccisori di Gesù dalla loro responsabilità, affermando che avevano agito per ignoranza.
RICORDA
«La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2)». (Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum, 19).
PER SAPERNE DI PIÚ
Ilaria Ramelli, Luke 23:34a: A Case Against Its Athetesis, «Sileno», 36 (2010), pp. 233-247.
Ilaria Ramelli, Remission and Restoration between Luke and Acts: the Riddle of Luke 23:34 and the Role of the Syriac Translations, in Aa.Vv., Syriac Perspectives on Holy Scriptures, in corso di pubblicazione
IL TIMONE N. 106 – ANNO XIII – Settembre/Ottobre 2011 – pag. 28 – 29
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