La legge naturale? Una forza morale che agisce nella coscienza ed è posta nel cuore dell’uomo da Dio. La Provvidenza? Intelligente e potente, interviene nel destino degli uomini, opera con giustizia e sanziona meriti e colpe. Una religiosità antica pre-cristiana? L’esempio di Cicerone.
Nella lettera ai Galati (4,4) san Paolo ricorre all'espressione "pienezza dei tempi" per indicare il momento dell'Incarnazione: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio inviò suo Figlio, nato da donna…». Dio aveva scelto un momento della storia nel quale il Figlio si sarebbe "appropriato di canoni e formule di una esistenza", sarebbe cioè entrato a far parte dell'Umanità. Quel momento era stato preparato a lungo. Dio non aveva mandato suo Figlio in un momento qualsiasi, ma aveva lungamente preparato quell'evento facendo sì che nel tempo precedente maturassero gradualmente, prima nella conoscenza e quindi nella coscienza degli uomini, l'attesa, il desiderio dell'Avvento, quale completamento di una lunga e instancabile attività di ricerca del vero, del bello, del giusto e di tutto quanto era desiderato dal cuore umano ma non trovava il suo pieno compimento su questa terra.
Nel corso di tanti secoli il pensiero dei Greci, protesi nella ricerca della verità, aveva dato fondo ad ogni risorsa nel tentativo di conoscere il vero Dio. Alla "logica" dei filosofi seguiva quasi sempre la "metafisica": l'uomo cercava di comprendere, di dare una risposta definitiva (ogni istituzione umana contiene in sé la pretesa o la speranza di definitività, poiché questa è la vera esigenza dell'uomo) alle domande "da dove vengo", "dove vado", "a chi appartengo". Si trattava, nella sostanza, di scoprire l'identità dell'uomo; una ricerca delle proprie radici, a riprova che l'uomo non si accontenta di tante verità parziali finché non raggiunge la verità, o almeno quella che per lui è la verità. Infatti, prima della Rivelazione, la scienza umana, soprattutto la filosofia, era pervenuta a molte verità, ma per questo sempre soggettive, col risultato che coloro che si erano impegnati in questa ricerca si erano dovuti dichiarare "vinti" per non essere riusciti a scoprire la verità su se stessi. Questo è, in sostanza, quanto dice san Paolo (At 17, 22 ss.) agli Ateniesi più colti, riuniti nell'Areopago: avendo letto sopra un altare la dedica "Al Dio ignoto" – che era l'implicita ammissione di non aver trovato il vero Dio, cioè l'unico Dio – annunzia loro: «Ciò che voi adorate senza conoscere io ve l'annunzio», e aggiunge: «Egli [Dio] … ha fatto abitare le stirpi degli uomini su tutta la faccia della terra, fissando a ciascuno i tempi stabiliti e i confini della loro dimora, perché cercassero Dio e come a tastoni si sforzassero di trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In Lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: "Di Lui, infatti, noi siamo la stirpe"». Le parole di san Paolo spiegano come la "pienezza dei tempi" sia la coscienza, acquisita nel tempo dagli uomini, che la ragione poteva intuire l'esistenza di Dio ma non pervenire alla conoscenza della Verità: è l'origine del Mistero. Per questo era necessario che Dio diventasse Uomo (Dante "tradurrà" tutto questo in modo inimitabile: "State contenti, umana gente, al quia / chè se possuto aveste veder tutto / mestier non era parturir Maria», Purgo III 37-39).
Da uomo colto qual era, san Paolo cita un verso («Di Lui, infatti, noi siamo la stirpe») del poeta Arato (11I-11 sec. a.C.), la cui opera aveva avuto grande risonanza presso le élites culturali grecoromane se consideriamo le numerose traduzioni e i commenti alla sua opera nella quale si cimentarono, fra gli altri, Cicerone e Germanico, nipote di Tiberio imperatore. Nel riconoscimento della ascendenza divina dell'uomo si trova uno dei fondamenti della religione romana (più che greca), la quale riconosceva in Giove il padre degli uomini e degli dei (il nome latino luppiter contiene la nozione di "padre"), e presso gli Autori greci e romani (Esiodo, Platone, Catullo, Virgilio) era ampiamente diffusa la credenza che uomini e dei avessero abitato insieme sulla terra in un tempo lontano.
A qual punto fosse giunta la riflessione religiosa nel mondo pagano si comprende leggendo, ad esempio, le opere della tarda maturità di Cicerone (dal 52 a.C. in poi). Questi si pone delle domande sulla nozione di giusto e di vero, che egli, da giurista, applica al diritto: cosa può garantire che le leggi siano giuste? Nei trattati Sull'invenzione, Sulle leggi e Sullo stato, soprattutto, Cicerone afferma che il diritto, e quindi le leggi, è già scritto nella natura: la legge scritta, infatti, ricalca quella naturale, e questa è una forza morale che agisce nella coscienza umana ed è stata posta nel cuore dell'uomo da Dio; l'uomo può riconoscerla attraverso la ragione (ratio), della quale nulla avvicina di più l'uomo a Dio. L'idea che Cicerone ha del diritto è metafisica (trascende la natura delle cose umane) e la ragione è frutto essa stessa dello spirito divino (numen deorum). Grazie ad essa l'uomo discerne il bene dal male: per questo essa rappresenta il vincolo di alleanza (societas) che unisce gli abitanti della terra e del cielo. In Cicerone è chiara l'idea dell'unità della Creazione e il fatto che le leggi umane e il loro fondamento, che è il diritto naturale, rientrano in una concezione unitaria e ordinata dell'universo. Aggiunge Cicerone che non c'è uomo sulla terra, a qualunque popolo appartenga, che seguendo l'istinto naturale non possa dare il meglio di sé (virtus), e che le buone qualità dell'uomo sono rese possibili dal naturale impulso che ci spinge ad amare il nostro prossimo, e ciò è il fondamento del diritto.
Anche il rispetto della vita rientra tra le leggi naturali. Nel trattato in forma di dialogo Sullo stato, uno degli interlocutori, Scipione Emiliano, dopo aver contemplato in sogno la bellezza dell'universo si domanda perché continuare a vivere se ciò che lo attende dopo la conclusione della vita terrena è così bello ed attraente. Gli risponde Scipione Africano: "Se prima il Dio del quale questo cielo è il tempio non ti avrà liberato dalle pastoie del corpo, non ti sarà consentito entrare qui. (…) Senza il comando di colui dal quale avete ricevuto lo spirito non si può lasciare la vita umana, perché non sembri che si vuole eludere con la fuga il compito che la divinità vi ha assegnato sulla terra».
Altrove Cicerone si dice convinto che nello sviluppo degli avvenimenti e nel destino degli uomini intervenga una provvidenza intelligente e potente, che opera con giustizia sanzionando i meriti o le colpe, al punto da affermare che esiste una Giustizia comune, unica, inalterabile; come eterni e immutabili sono il giusto e il vero, che non sono frutto né possono finire ad opera degli uomini.
Le riflessioni di Cicerone hanno contribuito anch'esse a colmare la misura della "pienezza del tempo": l'uomo non poteva più essere lasciato solo, nel dubbio che egli stesso aveva generato e nella impossibilità di trovare da solo la strada della Verità.
RICORDA
"Quanto all'esistenza degli dei, la prova più solida che se ne possa addurre è questa, a quel che pare: non c'è popolo, per quanto barbaro, non esiste uomo al mondo, per selvaggio che sia, che non abbia nella mente almeno un'idea della divinità. Sugli dei molti hanno delle convinzioni errate, e questo fatto normalmente è dovuto all'influenza corruttrice dell'abitudine: ma tutti quanti credono nell'esistenza di una forza e di una natura divina, e questa convinzione non è effetto di un precedente scambio di idee fra gli uomini e di un accordo generale, né ha trovato appoggio in istituzioni o leggi: ora, in ogni questione, il consenso dei popoli si deve considerare legge di natura».
(Cicerone, Tusculanae disputationes, I, 13, 30).
IL TIMONE – N. 40 – ANNO VII – Febbraio 2005 pag. 28-29